Vivere l’alterità: VIRGINIA WOOLF, di Paolo Armelli (1 di 3)
VIRGINIA WOOLF E CLARISSA DALLOWAY: LA TRADUZIONE E L’ALTERITÀ, di Paolo Armelli
(Riproviamo su FN l’esperimento che già si fece con il saggio in cinque puntate di Giuliana Giulietti su Agatha Christie; qui Paolo Armelli propone un’analisi delle traduzione di Mrs Dalloway, che arriverà fra tre puntate, una ogni quindici giorni. La rete si sa vien detto, sopporta solo testi corti e tempi brevi. FN penso che no, e si regala e chiede testi lunghi e tempi dilatati, dove ci sia spazio per ragionare, informare, fornire strumenti che aiutino a comprendere ciò di cui si parla. Dopo la scadenza dei diritti, in Italia s’è ripreso a pubblicare testi di Woolf, editi e inediti, vecchie e nuove traduzioni, dalle case editrici le più diverse. FN ha cercato di darne conto -in coda i link agli altri post “woolfiani” comparsi sotto la sigla FN- ed è molto contento di ospitare un breve saggio che riprende un po’ da capo la questione: chi è Virginia Woolf?)
I titoli delle tre puntate:
1. Vivere l’alterità: Virginia Woolf
2. Scrivere l’alterita: Clarissa Dalloway
3. Tradurre l’alterità: le versioni italiane di Mrs Dalloway
VIRGINIA WOOLF E CLARISSA DALLOWAY: LA TRADUZIONE E L’ALTERITÀ, di Paolo Armelli
1. Vivere l’alterità: Virginia Woolf
Ho buttato via una giornata [rispondendo a una dura critica apparsa sul Times Literary Supplement]. Suppongo sia tutta fatica sprecata; eppure, se sono davvero una outsider che io rimanga una outsider.
Virginia Woolf[1]
[1] “I wasted a day. I suppose it’s all pure waste; yet if one’s an outsider, be an outsider”.Virginia Woolf, A Writer’s Diary, edited by Leonard Woolf, Hogarth Press, London 1959, p. 320, trad. it. Giuliana de Carlo, Diario di una scrittrice, minimum fax, Roma 2005, p. 409.
È interessante osservare questa definizione che Virginia Woolf (1882-1941) dà di se stessa, concentrandola in un unico vocabolo: outsider. Interessante ancor di più in quando ha scritto queste parole quando si avvicinava alla fine della sua esistenza (il diario reca la data del novembre 1939), quasi a voler tracciare un bilancio di un’intera vita.
In generale il ritratto dello scrittore modernista è, in effetti, caratterizzato dall’insofferenza per le modalità tradizionali di intendere la società e la letteratura, con conseguenze di anticonvenzionalità e isolamento. Sfuggendo dall’angustia del conservatorismo borghese e dalle ristrette definizioni sociali, sessuali, stilistiche, l’autore modernista si fa cittadino del mondo, di un nuovo mondo; ciò significa anche che la sua fuga assume le dimensioni metaforiche di un esilio, di un allontanamento dell’intendere comune.
Quella di Woolf, come essenzialmente tutte quelle dei modernisti nei primi decenni del Novecento, fu una ricerca di novità, di ribellione al vuoto realismo precedente, di incontro con l’alterità: i personaggi woolfiani, sono figure alla ricerca di una loro identità in un contesto sociale che spesso li emargina o li opprime; di conseguenza anche di un linguaggio nuovo che dia voce a un io franto e mobile, di nuove tecniche per rappresentare una società non più solida e irremovibile, ma irrimediabilmente fluida e complessa.
Virginia Woolf è nata nel 1882 dal secondo matrimonio di Leslie Stephen, affermato saggista, storico e critico letterario della Londra vittoriana; la sua prima abitazione, al 22 di Hyde Park Gate, era frequentata da molti dei più noti intellettuali dell’epoca. Ma Woolf non sentì mai appieno come propria questa situazione di privilegio, innanzitutto poiché, a differenza dei fratelli maschi (e della sorella Vanessa, che aveva interessi più artistici e pratici che intellettuali), fu esclusa da un percorso educativo e accademico regolare; ricevette solo gli insegnamenti impartiti dal padre e qualche lezione privata di francese e greco e si formò soprattutto da autodidatta attingendo dalla vasta biblioteca paterna. L’esclusione da un’educazione formale fu un tema su cui Woolf rifletté tutta la vita e fu poi un punto di partenza fondamentale per i suoi testi sul ruolo delle donne nella società, come A Room of One’s Own (1929) e The Three Guineas (1938).
Un altro elemento fondamentale nella sua biografia, che può aiutare a definire questa sua esternalità rispetto ai canoni dell’epoca, è quello legato al dolore provocato dalle morti che hanno costellato ininterrottamente la sua esistenza e che generarono quella “atmosfera di lutto” che aleggia in tutte le sue opere. Quella fondamentale e iniziatica fu sicuramente quella della madre, avvenuta nel 1895, quando Virginia aveva appena tredici anni: questa assenza segnò indelebilmente il carattere della scrittrice e, secondo alcuni biografi, fu alla base della fragilità psichica che la gettò per sempre sull’orlo della depressione e dell’instabilità. Altri studiosi aggiungono a questo dato anche quello della non del tutto chiarita violenza sessuale da parte del fratellastro Gerald Duckworth all’età di sei anni e mettono in relazione i due fatti (assenza della figura materna e conseguenze delle molestie sessuali) alla particolare condotta sessuale di Woolf, anche questa piuttosto “eccentrica” per i suoi tempi.
Eppure il nome che le attribuiamo oggi, Virginia Woolf, è dovuto al suo matrimonio, sicuramente travagliato ma autentico e molto sentito, con lo scrittore-editore Leonard Woolf. In lui l’autrice trovò un confidente e una figura protettrice, nonché uno specchio in cui riflettere la propria stravaganza e diversità: in Leonard Virginia trovò una figura di outsider dalle caratteristiche simile alle sue. Più povero di lei ed ebreo, un intellettuale puro e quasi spiantato, Leonard fu per Virginia la conferma di poter vivere un’unione fuori dall’establishment della Londra salottiera e ricercata da cui si sentiva completamente estranea. Pur sposata, poteva così rivendicare ulteriormente il suo status anticonvenzionale di donna intellettuale.
È in questo contesto biografico e psicologico che la scrittrice elabora il suo percorso letterario con ancora più grande dirompenza, piegando le potenzialità della lingua all’espressione di un viaggio della coscienza e della conoscenza che vuole riprodurre la frammentazione e, poi, la ricomposizione dell’animo umano. La narrativa woolfiana può essere interpretata come una continua rottura che si cerca incessantemente di ricomporre, sia essa causata dalla morte, dall’inadeguatezza, dal tempo che fugge inesorabile: “lo sperimentalismo moderno si presenta a Woolf come un distacco sinistro e in qualche modo tragico, come un rumore di ‘fracasso, di crollo: il suono di qualcosa che si rompe e cade a terra, un suono di distruzione’”.[2] I cocci vanno raccolti e rimessi assieme, sembra suggerire Woolf, anche se questa ricostruzione ci mette in contatto con gli aspetti più veri e dolorosi dell’esistenza: eppure il dolore non va negato ma compreso, sublimato.
[2] Nadia Fusini, Virgo, la stella, in Virginia Woolf, Romanzi, Mondadori, Milano 2005, p. XI.
Per Woolf stessa non fu facile ricavarsi un proprio spazio nel mondo letterario dell’epoca, anche se dopo anni di tentativi, un certo successo di pubblico le permise una qualche agiatezza. Per contro, oltre all’insoddisfazione cronica che la gettava in uno stato depressivo ogni qual volta doveva attendere i riscontri critici riguardanti suoi libri appena pubblicati, bisogna considerare l’atteggiamento spesso ostico dei colleghi letterati e scrittori che, pur riconoscendole originalità di stile, ne sottolineavano i difetti di profondità e credibilità; nel migliore dei casi i critici si dichiaravano entusiasti, ma nonostante ciò anche piuttosto perplessi. T. S. Eliot affermò ad esempio che Woolf era stata sì il centro della vita letteraria londinese, ma questo la spinse a proseguire nel solco di una cultura vittoriana tradizionale ed elitaria;[3] Whyndham Lewis la definì una marginale e una moralista.
[3] Cfr. T.S. Eliot, “[Obituary]”, in Robin Masumdar, Allen McLaurin (eds.), Virginia Woolf. The Critical Heritage, Routledge&Kegan Paul, London-Boston 1975, p. 431: “Virginia Woolf was the centre, not merely of an esoteric group [Bloomsbury], but of the literary life of London […]. She mantained the dignified and admirable tradition of Victorian upper middle-class culture”.
La stessa Woolf era tuttavia consapevole che i suoi intenti narrativi andavano contro un certo modo di fare letteratura ancora legato alle convenzioni ottocentesche e vittoriane, vale a dire ai valori dominanti di una società borghese e patriarcale, a un’esteriorità moralistica e di comodo. Le sue opere uscirono tutte più o meno da questi schemi, confermando costantemente nell’autrice una sensazione di marginalità rispetto alla critica letteraria, alla società ma anche rispetto alla vita in genere. Già il suo primo romanzo, The Voyage Out (1915), che pure è un’opera dall’impianto piuttosto tradizionale, getta sui personaggi e sulle situazioni ombre di introspezione e di dubbio che già anticipano le elaborazioni successive: non a caso la sua ricerca parte con un “voyage out”, un viaggio che fugge al di fuori dai ruoli asfissianti decretati da famiglia e società. Tutte le opere seguenti furono votate alla descrizione di un’impossibilità, di un’incomunicabilità che si cerca d’infrangere andando oltre alle barriere imposte dall’esterno. Dall’assenza luttuosa di un figlio in Jacob’s Room (1922) al tentativo di ricostruire un’armonia famigliare attraverso il ricordo in To The Lighthouse (1927), dall’incessante metamorfosi esistenziale di Orlando (1928) alle sei coscienze sovrapposte di The Waves (1931), ognuno dei romanzi woolfiani rappresenta uno sforzo di andare oltre l’involucro apparente dell’esistenza; lo scopo è determinare un senso ultimo e profondo che si lega a doppio filo sia alla questione del tempo che a quella del linguaggio: leggere la narrativa di Woolf significa essere coinvolti in un continuo processo di scoperta e nominalizzazione che si fa attraverso l’esperienza dell’evoluzione linguistica.Dare un nuovo nome alle cose, concepire un nuovo modo di intendere il tempo, stabilire un nuovo equilibrio fra esteriorità e interiorità: questi sono i compiti letterari di Woolf che ce la fanno vedere come “una scienziata volta all’ardua impresa di ‘connettere l’interno e l’esterno’, che è come dire l’io e il mondo, il soggetto e la realtà che la circonda”.[4]
[4] Fusini, Virgo, la stella, op. cit., p. XVI.
Letture e spunti:
Per scoprire la vita di Woolf i suoi diari sono uno strumento prezioso: l’edizione disponibile finora (Diario di una scrittrice, trad. Giuliana de Carlo, minimum fax, Roma 2005) era però quella approntata dal marito Leonard, con conseguenti tagli e censure. Stanno uscendo ora, invece, le edizioni e le traduzioni integrali: in italiano, Diari 1925-1930, trad. Bianca Tarozzi, Bur, Milano 2012.
Una delle migliori biografie è, invece, quella scritta dal figlio della sorella Vanessa: Quentin Bell, Virginia Woolf, mia zia, trad. Marco Papi, La Tartaruga, Milano 2011.
Altrettanto interessante il ritratto offerto da uno dei più affermati studiosi woolfiani: James King, Virginia Woolf, Penguin Books, London-New York 1995; mentre uno studio che ne rilegge l’esistenza basandosi (forse troppo) sull’evento della violenza sessuale è: Louise de Salvo, Virginia Woolf: The Impact of Childhood Sexual Abuse on Her Life and Work, The Women’s Press, London 1990.
In Italia molto ricca, anche poeticamente, è l’introduzione scritta dalla traduttrice e studiosa di Woolf Nadia Fusini, in apertura al Meridiano dedicato alla scrittrice: “Virgo, la stella”, in Virginia Woolf, Romanzi, Mondadori, Milano 2005.
Per uno sguardo generale sugli scrittori modernisti come figure d’esilio si segnala l’introduzione in: Oriana Palusci, Nicoletta Vallorani, Modernist Fiction. Lawrence, Joyce, Woolf, Principato, Milano 1994
Paolo Armelli si è da poco laureato in Lettere Moderne; lavora nel campo dell’editoria e della comunicazione. Scrive di libri, moda e media, traduce, ha un blog suo (liberlist.wordpress.com) e uno su Wired.it (Wireditorial) che si occupa di editoria e social media. Ha ideato e dirige il magazine culturale online Bartleby (bartlebymag.it). Su Twitter è: @p_arm.