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Venezia, la Marchesa Casati e Rousseau il Doganiere

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[Gite, viaggi, vacanze, visite, quel che s’è visto, raccontato a FN]

 

1: La marchesa e il doganiere, di Massimo Scotti.

Venezia, 8 marzo 2015

 

 

È appena finita, a Venezia, la mostra su Luisa Casati Stampa, divina marchesa degli anni che furono (1881-1957), diva di surrealismi, futurismi e altre avanguardie, cosmopolita, eccentrica, imperatrice dei lussi più sfrenati e dissipatrice di patrimoni sterminati, con occhi da gufo sperduto nell’alba e dita sempre grifagne, smisuratamente allungate da unghie finte, come le sovrane di Atlantide pronte ad ammazzare Totò nelle parodie dei peplum anni Cinquanta. Ma si è appena aperta un’altra esposizione, quella su Henri Rousseau il Doganiere, tanto amato dai suoi amici artisti quanto dileggiato dalla critica accademica ai suoi tempi, ma presto redento da quelli che se ne intendevano, come i “primitivi” italiani che videro in lui nientemeno che il fondatore di un nuovo gusto e nuove forme pittoriche. Alla faccia di chi lo considerava semplicemente “naïf”.

marchesa casati

Per una domenica (la scorsa, 8 marzo) si poteva passare da una mostra all’altra, dal Museo Fortuny al Palazzo Ducale, squisito il primo, fatidico il secondo: la marchesa a suo agio tra penombre sfarzose e arredi esotici, il doganiere assunto nei cieli della storia, in saloni complici e stupiti, regali come quelli del Louvre in cui lui andava a studiare gli antichi maestri, per poi imitarli a modo suo.

marchesa casati

Luisa Adele Rosa Maria, nata contessa Amman, giovane orfana ricchissima, si era sposata nel primo anno del Novecento con il marchese Camillo Casati e avrebbe potuto fare la tranquilla nobildonna Belle Époque, invece no. Fra una battuta di caccia e un pomeriggio di pioggia incappò in Gabriele D’Annunzio e diventò la sua amante: lui la chiamava Corè, come la signora dell’Oltretomba, lei lo chiamava Ariel, come lo spirito dell’aria shakespeariano. Non ebbero figli ma una tartaruga in comune, Cheli, che morì per aver fatto indigestione di tuberose.

I suoi stilisti erano Mariano Fortuny e Paul Poiret, che la vestivano come una Barbie ante litteram, ma con molta più fantasia: i loro abiti e quelli di Léon Bakst sono leggendari quanto le feste che tenne a Venezia, a Parigi o a Capri, dove arrivava facendo ogni volta scalpore: intorno al collo invece di gioielli o volpi argentate portava pitoni vivi; al posto dei cagnolini teneva al guinzaglio ghepardi domestici; era preceduta da servitori nubiani, seminudi o dipinti d’oro, che reggevano sulle spalle i suoi pesanti bauli. Al medico Axel Munthe, che le aveva affittato Villa San Michele, si presentò sdraiata su una pelliccia e avvolta unicamente dalla sua bellezza naturale, perché non aveva voglia di vestirsi o perché – data la sua professione – il dottore era abituato a vedere le donne nude.

marchesa casati

Mi è venuto in mente: pensa se si fossero incontrati, la Casati Stampa e Rousseau? Lei sofisticatissima, lui candido; lei extranobile e lui popolaresco; lei divorziata e piena di amanti, lui malinconico e ben due volte vedovo.

marchesa casati

Magari è anche avvenuto, questo incontro, e io non lo so, ma se così fosse, lui l’avrebbe di certo ritratta: metà donna e metà leoparda (al femminile, per far contenta la Boldrini), in una foresta di damasco, oppure alla stazione, fra gli sbuffi di vapore dei treni, intenta a controllare i suoi averi che venivano caricati sui vagoni, in uno degli innumerevoli traslochi. A Parigi, dove abitava anche il doganiere, aveva comprato il Palais Rose dell’amico Robert de Montesquiou. Divenne “Palais du Rêve” e fu meta degli artisti che la ritraevano: a sei occhi, come fece Man Ray approfittando di un fortunato errore fotografico, oppure come uno strano giocattolo di legno – quel che fece Giacomo Balla in una delle opere più celebri del Futurismo.

marchesa casati

Le opere del doganiere Rousseau non avevano forme così temerarie, eppure erano abbaglianti nella loro semplicità; certo, se la marchesa avesse visto la sua Incantatrice di serpenti avrebbe preso spunto per un costume di scena o per un intero ballo in maschera.

Mentre dopo la morte il doganiere conquistò un’ammirazione durevole e destinata a crescere col tempo, la marchesa finì in miseria. Cecil Beaton la fotografò negli ultimi anni, e lei si arrabbiò tanto che lo maledisse (per iscritto). Fu sepolta con ciglia finte e bistro sugli occhi, insieme a un pechinese impagliato. Anche la sua fama, però, resta imperitura, e con la ricchezza c’entra poco o niente.

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1: La marchesa e il doganiere, di Massimo Scotti.

Venezia, 8 marzo 2015

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