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UN UOMO CHE DORME / Georges Perec. Quodlibet 2009. L’incipit

[Il terzo volume della collana Prosa contemporanea presentava Un uomo che dorme, di Georges Perec, nella versione di Maria Pia Tosti Croce. Nel 2009 Quodlibet ha riproposto il testo, all’interno della collana Compagnia Extra, nella versione di Jean Talon. Si propone qui, grazie alla gentile disponibilità della casa editrice, l’incipit de Un uomo che dorme in quest’ultima versione]

Prosa contemporanea, di Mauro Maraschi 

Testi / 1

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Un uomo che dorme, di George Perec / Incipit

Non appena chiudi gli occhi comincia l’avventura del sonno. Al posto della solita penombra nella stanza, volume oscuro che si interrompe qua e là, dove la memoria identifica senza sforzo le vie percorse mille volte, rievocandole a partire dal quadrato opaco della finestra, resuscitando il lavabo a partire da un riflesso, e lo scaffale grazie all’ombra un po’ più chiara d’un libro, delineando la massa più buia degli abiti appesi, dopo un po’ subentra uno spazio bidimensionale, come un quadro dai limiti incerti che formi un angolo col piano dei tuoi occhi, quasi poggiasse non del tutto perpendicolarmente sul colmo del tuo naso; ed è un quadro che, all’inizio, può sembrarti uniformemente grigio, anzi neutro, senza colori né forme, ma che con ogni probabilità, di lì a poco, risulta possedere almeno due caratteristiche: la prima è che si inscurisce più o meno secondo che tu stringa più o meno forte le palpebre, o più precisamente: come se la contrazione esercitata sull’arco delle sopracciglia quando chiudi gli occhi ottenesse l’effetto di modificare l’inclinazione dell’inquadratura rispetto al tuo corpo, quasi che l’arco delle sopracciglia funzionasse da cerniera, e di conseguenza, benché questa conseguenza non sembri dimostrabile se non con l’evidenza, modificasse la densità o la qualità dell’oscurità da te percepita; la seconda caratteristica è che la superficie di tale spazio non è affatto regolare, o, più precisamente, che la distribuzione o diffusione dell’oscurità non si dà in modo omogeneo: la zona superiore è palesemente più buia; mentre la zona inferiore, quella che ti sembra più vicina, benché sia ovvio che le nozioni di vicino e lontano, alto e basso, davanti e dietro, hanno ormai smesso di aver un senso preciso, per un verso è decisamente più grigia, ossia non tanto più neutra, come credi in un primo momento, ma proprio più bianca, e per l’altro verso contiene o sorregge una, due o più specie di sacche, di cap- sule, un po’ come l’idea che ti fai, per esempio, di una ghiandola lacrimale, con gli orli sottili e ciliati, sacche al cui interno si agitano, tremolano e si contorcono dei lampi bianchissimi, talvolta molto sottili, come finissime striature, talvolta molto più grossi, quasi grassi, come vermi. Questi lampi, benché lampo sia un termine del tutto inappropriato, hanno la strana virtù di non poter essere guardati. Appena ti fissi un po’ troppo su di loro, ed è quasi impossibile non farlo, perché insomma ti ballano davanti, e tutto il resto finisce per esistere a malapena, e in effetti non c’è molto che sia davvero percepibile, oltre alla cerniera sulle tue sopracciglia e quel vago spazio bidimensionale più o meno distinguibile dove l’oscurità si dispiega in modo irregolare; ma appena li guardi, sebbene questa parola ormai non voglia dire più niente, è chiaro, appena tenti, poniamo, di farti una qualche idea sulla loro forma, sulla loro sostanza o su un loro particolare, puoi star sicuro di ritrovarti con gli occhi spalancati davanti alla finestra, rettangolo opaco ridiventato quadrato, benché quella o quelle sacche che non gli somiglino per niente. Ma poi, dopo un po’ che hai richiuso gli occhi, quelle riappaiono e con loro lo spazio più o meno inclinato che si dispiega sopra le tue sopracciglia, e c’è da supporre che non siano cambiate tra una volta e l’altra. Tuttavia, non puoi essere del tutto sicuro su quest’ultimo punto, poiché in un arco di tempo difficile da valutare, e benché ancora niente ti permetta di dichiarare con certezza la loro sparizione, puoi ben constatare che si sono sbiadite un bel po’. Adesso hai a che fare con una specie di grisaglia striata, sempre appartenente a questo spazio che più o meno è un prolungamento dalle tue sopracciglia, ma, si direbbe, così deformato da essere come tirato in continuazione verso sinistra; puoi guardarlo, esplorarlo, senza perturbare l’insieme, senza provocare un immediato risveglio, ma tutto questo alla fine non ha il minimo interesse. È sulla destra che succede qualcosa, nella fattispecie si tratta di un’asse, più o meno dietro di te, più o meno sopra, più o meno a destra. L’asse, ovviamente, non si vede. Sai soltanto che è dura, anche se non ci sei sopra, poi- ché sei, appunto, su qualcosa di molle che è il tuo stesso corpo. Si verifica, allora, un fenomeno davvero strano: dapprima ci sono tre spazi che niente ti darebbe agio di confondere, il tuo corpo-letto, che è molle, bianco e orizzontale, poi l’arco delle tue sopracciglia, che domina uno spazio grigio, intermedio e obliquo, e infine l’asse, che è immobile, molto dura sopra, in parallelo con te, e forse accessibile. È in effetti chiaro, anche se di chiaro ormai c’è solo questo, che se sali sull’asse, dormi, e che l’asse è il sonno. Il principio di quest’operazione non potrebbe essere più semplice, anche se tutto ti fa pensare che ti ci vorrà un bel po’ di tempo: perché bisognerebbe radunare il letto e il corpo, finché non siano nient’altro che un punto, una biglia, oppure, che è la stessa cosa, ridurre tutto il flaccido del corpo concentrandolo in un unico posto, tipo, ad esempio, una vertebra lombare. Ma il corpo a questo punto non ha più quella bella compattezza di poco fa, infatti si sparpaglia in tutti i sensi. Tenti allora di riportare verso il centro un dito del piede, un pollice, o la coscia, ma ogni volta c’è una regola che dimentichi, cioè che non bisogna mai perdere di vista la durezza dell’asse, che bisogna procedere con astuzia, radunare il corpo senza che se ne accorga, senza che tu stesso lo sappia con certezza; ma ora è troppo tardi; ogni volta, da molto tempo ormai è già troppo tardi, e, strana conseguenza, l’arco delle sopracciglia si spacca in due, sicché al centro, tra i tuoi occhi, come se la cerniera avesse tenuto l’insieme, e tutta la forza di questa cerniera si concentrasse in quel punto, ora sopraggiunge d’un sol tratto un dolore preciso, indubbiamente cosciente, e che subito riconosci come il più banale dei mal di testa.

Tratto da: Un uomo che dorme (Un homme qui dort), di Georges Perec. Traduzione di Jean Talon; postfazione di Gianni Celati. Quodlibet 2009

 

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