Non starò a raccontarvi delle storie

Menu

The Machine: As Seen at the End of the Mechanical Age / Pietro Grandi

Futureworld 

di Pietro Grandi

27. The Machine: As Seen at the End of the Mechanical Age

K.G. Pontus Hultén, “The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age”, Catalogo, MoMA: The Museum of Modern Art, 27 Novembre 1968 – 9 febbraio 1969.

Per gli antichi, il vento e il sole, il mare e le foreste erano informati da spiriti imperscrutabili i quali, in soggezione e in propiziazione, hanno dato loro personalità e forme umane. Per l’uomo moderno, i gadget meccanizzati, che il suo cervello ha generato, sembrano avere una vita propria. Quale americano adulto non ha colpito una televisione che sfarfallava? O ha fatto una battuta sentendosi a disagio sul giorno in cui i computer prenderanno il controllo?

(TIME Magazine, “Exhibition: Love, Hate & the Machine”, 6 dicembre 1968)

Lamiera di alluminio. Dipinto a smalto. Palazzo del MoMA. Pagine monocrome di carta. Bianco, Nero e Blu. Macchine e Arte. Il collezionista e curatore svedese K.G. Pontus Hultén espose in un pregiato catalogo una delle mostre più importanti dedicate all’arte e alla tecnologia presso il Museum of Modern Art di New York. Nell’esposizione, che si tenne dal 27 novembre 1968 al 9 febbraio 1969, si mostrò al pubblico la crescente evoluzione tecnologica e la si mise a confronto con i valori umanistici dell’arte; ma, soprattutto, si evidenziarono sia lo scetticismo che l’ottimismo davanti alla nuova era delle macchine tecnologiche. Il punto era quello di mettere a confronto la natura umana con l’imitazione della meccanica che simula il funzionamento del cervello. Il computer veniva visto come una macchina semiotica in grado di prendere il sopravvento sull’uomo.

Questo catalogo, attraverso il lavoro di oltre cento artisti dal XV al XX secolo, ci spiega l’evoluzione, il dialogo e le intersezioni tra arte e tecnologia, ma soprattutto i nuovi processi cibernetici. Hultén rimaneva stupito e “incantato in mezzo a un mondo di macchine. Questi artisti sono determinati a non lasciarsi ingannare da loro stessi. […] Chiaramente, se crediamo nella vita o nell’arte, dobbiamo assumere il dominio completo su le macchine, sottoporle al nostro volere e dirigerle in modo che esse possano servire la vita nel modo più efficiente, come criterio per la totalità della vita umana su questo pianeta. […] Nella pianificazione di un tale mondo, e nel contribuire a farlo nascere, gli artisti sono più importanti dei politici, e anche di tecnici. Ma, naturalmente, non possiamo riporre la nostra fiducia negli artisti.”

La mostra includeva opere di Dürer e Da Vinci, stampe, dipinti, sculture meccaniche ed elementi elettromeccanici, arte laser e macchine di Goldberg, ma soprattutto opere di artisti contemporanei: veniva ospitata per la prima volta un’installazione con un videoregistratore ed una videocassetta dell’artista coreano Nam June Paik. Il collettivo di artisti e ingegneri E.A.T. (Experiments in Art and Technology) organizzò la sezione più contemporanea. In questa spicca un esempio di primitiva computer grafica: un’immagine digitalizzata e pixelata di nudo dal titolo “The Nude”, eseguita nel 1966 da Leon Harmon e Kenneth C. Knowlton, due ricercatori dei laboratori Bell.

Come scrisse Umberto Eco nel saggio “La forma del disordine” apparso nell’almanacco Bompiani del 1962: “Il cosmo esplode, si espande, dove andrà a finire? L’osservatore della prospettiva rinascimentale era un buon ciclope che appoggiava il suo unico occhio alla fessura di una scatola magica nella quale vedeva il mondo dall’unico punto di vista possibile. L’uomo di Munari è costretto ad avere mille occhi, sul naso, sulla nuca, sulle spalle, sulle dita, sul sedere. E si rivolta inquieto, in un mondo che lo tempesta di stimoli che lo assalgono da tutte le parti. Attraverso la saggezza programmatica delle scienze esatte si scopre abitatore inquieto di un expading universe. Non dico che sia una bella storia. È la Storia.”

IMG_9919 IMG_9920 IMG_9921 IMG_9922 IMG_9923

[Intento di FN è stato, da subito, quello di costruire archivi; dei fondachi di materiali che trasportassero in rete quel che la rete fa sparire: la carta. C’è una separazione radicale e mal segnata fra il cartaceo e il virtuale. In rete se si cerca la carta non la si trova, si trovano le parole che la carta portava su di sè, ma niente che ci dica dove fossero quelle parole, che aspetto avesse l’oggetto che le conteneva. Chi volesse studiare ora editoria in rete trova ben poco, se non parole, che non bastano. Questa nuova serie, Futureworld, a cura di Pietro Grandi, interpreta al meglio quell’intento che FN insegue da sempre. (N.d.D.) ]

Futureworld, gli ultimi post.
FN, tutti gli ultimi post