Non starò a raccontarvi delle storie

Menu

San Valentino

Love song / postille. 2

LOVE

“Non è l’amore a dover essere giusto, ma la legge” (autocit.)

Il 14 febbraio, San Valentino, sono tre anni da che mi sono sposato. Sono sposato, non c’è dubbio; ho una fede al dito, ho un certificato, ho le foto, il video. Se mi sposassi di nuovo facendo finta di essere celibe mi arresterebbero o più probabilmente mi fermerebbero prima. In Italia naturalmente mi potrei sposare perché lo Stato italiano se ne frega che gli Stati Uniti, dove mi sono sposato, affermino che io già lo sia. Quindi io vivo un presente in cui c’è uno spazio in cui sono sposato e uno spazio in cui sono celibe. Salgo su un aereo celibe e scendo sposato, salgo sposato e scendo celibe. Attivo Grindr, rimuovo Grindr.

Ma non è la sola dicotomia in cui abito.
Il matrimonio è la cerimonia pubblica per eccellenza, poiché è un patto che ha nella testimonianza della comunità il suo senso primo, ci si impegna, cioè, l’un/a l’altro/a, di fronte allo Stato, rappresentato sia da chi officia sia dalle persone care che si raccolgono intorno alla coppia. In questo è un patto che ha molti contraenti. Riservare a una sola categoria di persone, selezionate in base al loro orientamento sessuale dichiarato, la possibilità di contrarre matrimonio, nega non solo alle coppie formate da persone dello stesso sesso di intrecciare i diritti e i doveri che discendono dal loro impegno reciproco, ma anche alla comunità di farsene testimone.

Come si sa il matrimonio mio e di mio marito divenne decisamente pubblico: che ci saremmo sposati lo seppero un sacco di milioni di spettatori, su Rai 1, durante la prima serata di Sanremo. Il 14 poi ci sposammo, a farci da testimoni c’era una nostra amica che era già lì a New York, suo figlio e il compagno di lei; poi a giugno, a casa, ci fu una festa, dove un video, proiettato su un lenzuolo tenuto disteso da mio marito e me in piedi su una sedia, nel buio del giardino, permise a tutte le persone a noi care di partecipare al nostro patto. E così da allora io vedo delle persone e sono sposato, ne vedo delle altre e non lo sono. Al supermercato mi dicono mi saluti suo marito, in Comune mi dicono stato civile celibe.

Ora se passa la legge su quelle che chiamano Unioni Civili noi cosa dovremo fare? Unioncivilarci? Cioè cosa ci succederebbe? Grindr lo attivo o lo disattivo? Salgo su un aereo e sono sposato, scendo dall’aereo e sono unioncivilato. Poniamo che decidessimo di sì: ok facciamo la festa. Più o meno inviteremo le stesse persone, cosa festeggeremmo? Cosa testimonieranno gli invitati? La nostra squalifica da persone sposate a persone unioncivilate?

La cosa orripilante di questa legge è che se fino al giorno prima vivevo in uno Stato che non riconosceva il mio matrimonio, il giorno dopo, se vorrò alcuni bonus pratici, vivrò in uno Stato che rubricherà in un apposito registro il mio legame con mio marito, la mia famiglia, i miei rapporti con i parenti, con le banche, con l’amministrazione, come qualcosa di strano, di minore, di diverso, di misterioso. Uguale ma diverso, stessa sostanza ma nomi diversi, stessa apparenza ma diversa sostanza. Perché il punto, orribile, di tutta le infinite parole fatte in questi giorni è che siccome non siamo persone eterosessuali, c’è bisogno per noi di un qualcosa inventato apposta per noi, di un qualcosa che non è mai esistito atto a dire: voi non siete come noi.

Quello che ci verrà chiesto è un salto mortale nell’umiliazione. Volete che diciamo che siete come noi? Non se ne parla neanche. Tutt’al più possiamo darvi un po’ di quelle cose che volete tanto, ma per averle dovete accettare d’essere quello che secondo noi siete: froci, rottinculo, malati, contronatura, non possiamo dirlo perché la lobby gay ce lo impedisce, ma “specifiche formazioni sociali” sì.

In questo la manifestazione del 30 gennaio, il Family Day, è apprezzabile per onestà: perché ha detto che essere gay è in sé una cosa orribile. Se essere gay è in sé una cosa orribile è ovvio -direi addirittura condivisibile- che i gay li si debba arginare in un qualcosa, non importa cosa, che li renda ben visibili e in cui loro stessi debbano dirsi io sono quella cosa orribile che in quanto tale c’è bisogno che la si circondi la si argini la si marchi perché ce ne si possa difendere. Il Family Day è stato onesto. Perché il punto è solo quello. Perché se pensi che essere lgbtqi vada sempre bene tanto quanto essere etero, allora mai, mai, mai potrai pensare che ci debbano essere leggi, istituzioni, vagli, sentenze che mutino a seconda se sei in un modo o nell’altro. Ogni altro pensiero, disegno di legge, o distinguo appartengono all’ideologia chiara e limpida che il Family Day ha così ben manifestato al mondo.

Perché abbiamo parlato di famiglia, di figli, di doveri e di diritti, di pensioni, di eredità e di conti in banca, ma tutte le parole sono vane se pensi che l’orientamento sessuale possa essere dirimente per la legge. Il Family Day ha detto chiaro e forte che è l’amore a dover esser giusto o sbagliato e la legge a doverlo sanzionare.

M questo era l’unico e solo punto sul quale si sarebbe dovuti restare: pensate che l’orientamento sessuale di una persona possa essere occasione di discrimine? Pensate che la legge debba sancire in tutte le sue articolazioni che ci sia un orientamento sessuale giusto e uno sbagliato? Sì. No. Non c’è mediazione possibile.

Avere accettato che vi potesse essere mediazione ha consegnato la vittoria in mano a chi pensa che sì, l’orientamento sessuale deve essere occasione di discrimine.

Anche la dizione “matrimonio gay” è una trappola: o l’orientamento sessuale non è dirimente o invece lo è, e se si ritiene che lo sia, allora vuol dire che si pensa che ci sia un orientamento sessuale più giusto e uno meno. Cioè a dire che è giusto separare i matrimoni, dai “matrimoni gay”.

Nei mesi passati mi è capitato di parlare con chi sin dall’inizio ha sostenuto il disegno di legge di cui si discute in questi giorni. In teoria ti do ragione, mi dicevano, ma per quella strada non ci arriveremo mai. Facciamo approvare questo, poi piano piano la scalpelliamo per via giudiziaria fino ad arrivare alla piena parità. La disonestà politica e intellettuale mi fa spavento sempre e il prezzo che noi tutti/e stiamo pagando è altissimo. Perché le parole non sono vento e chi s’affaccia alla vita in questi anni vedrà ancora che chi è discriminato pensa esso stesso che quella discriminazione sia legittima: quanta inutile e ingiusta fatica dovrà fare ancora per non pensarsi più come parte meno giusta del mondo?

Ma infine anche in questo il Family Day è stato utile. Perché in un Paese ipocrita come l’Italia erano anni che una simile bordata di insulti e violenze non si era scatenata contro le persone lgbtqi e contro tutte quelle persone etero che non si pensano migliori in base al proprio orientamento sessuale. La gioia ottimista delle manifestazioni di sostegno alla legge e lo sconcerto per la violenza del Family Day hanno costruito una coscienza che prima non c’era. Di fronte agli insulti disgustosi che si sentono in questi giorni in Senato, lo scandalo è sempre più ampio ed è forte come non mai prima l’idea che questa legge non sia una vittoria, ma solo uno strumento, per quanto difettoso, utile solo a sanare situazioni urgenti, famiglie divise, genitori umiliati, affetti ingiuriati, e che in nulla tocca e in nulla sani l’ingiustizia di uno stigma millenario.

L’evidenza dell’ingiustizia a volte appare grazie a chi la esercita. Ogni insulto in Parlamento la sottolinea e destina chi lo pronuncia all’irrilevanza. Non sarà domani, ma sarà.

LOVE

(graphic design dell’illustrazione: Alice Beniero)

Someday, gli ultimi post.
FN, tutti gli ultimi post