Non starò a raccontarvi delle storie

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Scippata solitudine. Anacleto va al Salone del libro di Torino

Anacleto va al Salone

federico novaro

Non sono andato a Tempo di libri perché dormire a Milano costa molto; forse così hanno pensato anche delle altre persone –perché, si saranno detti– spendere così tanto (costa davvero tanto) se poi fra un mese spendo meno al Salone di Torino? Forse anche qualche editore o editrice si saran detti così –salvo quelle e quelli che a Milano hanno casa e che gli bastava la Metro per Rho (c’è una Metro per Rho?).

A Torino, è vero, sembrava, sotto lo choc del leso Salone, che non sarebbe andato nessuno mai, ma uno delle volte sta anche alla finestra e vede come va. Chi ha saltato Milano e è tornato a Torino sembra che sia stato felice –la parola suonava faticosamente stucchevole nei comunicati stampa della gestione Lagioia.

Perciò non so dir nulla di Milano.

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Sono andato a Torino, aggrappandomi all’idea che avrei incontrato delle persone che si salutano tutti gli anni, come a una felice commemorazione, ci si aggiorna de visu. Poi che dovevo sparpagliare i flyer bellissimi che Christel Martinod ha fatto per l’FNPS2017 che quest’anno si chiamava “FN vende Munari a caro prezzo”; ragione quest’ultima del tutto fittizia che io sono timido e li do solo alle stesse persone di cui sopra, anche questo come un rito allegro che si ripete.

Ero curioso però di capire se quel che scrivemmo in Fieri delle fiere ormai qualche anno fa fosse o meno da aggiornare.

Dico già subito che mi par di no.

Come ha rilevato fra molte altre cose Armelli su FN, il cibo era stato messo da una parte e la puzza di soffritto sembrava dileguatasi, wow, sollievo.

Come si sa non c’era tutto il gruppone Mondadori e questo era stranissimo e anche uf.

Come capita credo nell’universo se fai un buco vuuuuuuuu tutto vi precipita dentro per riempirlo. La gestione nuova di fronte alla fuga a Milano abbassò i prezzi degli stand un sacco (era una lamentela costante, che gli stand costassero enormemente). Le due cose insieme hanno spostato un po’ tutti gli stand dalle loro posizioni abituali e fatto accorrere a frotte marchi che mai s’eran visti.

Uso questo tono un po’ svagato apposta –sto imparando leggendo i comunicati che i TQ fanno intorno ai loro Saloni anche se io sono felicemente (caspita che sollievo essere nati allora e non dopo) oltre i C– per dire cose un po’ a muzzo: quanti ce ne saranno stati di più che non c’erano? Trenta? Mille? Un sacco. Quanti erano wow o almeno non macchine da riciclo della carta? Tre?

Perché questa era l’impressione generale su di me: un’infinita, incontenibile, soffocante slavina di inutilità messa su carta. Sembrava che l’Amazzonia tutta ti urlasse deforestatore infame mentre passavi (anche se non è da là che viene la carta).

 

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Ora: chi se ne frega. È una Fiera, chi paga si fa il suo stand; la curatela dell’organizzazione sta nelle robe collaterali che Caterina, anche lei su FN, ha ben individuato.

Il successo del Salone di quest’anno sembra essere stato attribuito soprattutto a due cose: la fuffa (quelle felicità di cui si parla) (identica a Tempo di libri, ma si sa, la fuffa langue dove il pubblico latita) e il campanilismo (versione poraccia e nauseabonda del nazionalismo suprematista).

Davanti ai numeri ci dicono non c’è critica che tenga. Oltre ai campanilisti venuti in gita a difendere Torino (no, ma io mi chiedo solo, ma alla settima volta che si scrive Torino ha avuto uno scatto d’orgoglio, Torino rialza la testa, Torino la fa vedere a Milano, gonfiandosi d’orgoglio il petto, ma non ci si sente un po’, come dire, scioccherelli? Cioè si percepisce l’idiozia non della notizia, ma di tutto il sistema culturale e ideologico che concepisce delle frasi del genere? L’angustia, la piccolezza, il provincialismo?) l’altro dato è che molti marchi hanno venduto ben più del solito e ok, bene così.

 

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La domanda –mia– è sempre quella: a che serve?

Alla città, questo è evidente: alberghi pieni, indotto grasso.

Ai conti dell’anno degli editori: se incassi più di quel che spendi, ottima cosa.

Agli editori, che possono far conoscere in modo esaustivo il loro progetto e la loro ragion d’essere; mah. (evado subito questa questione: la soffocante presenza di mille mila case editrici inutili e dannose, affianco affianco a quelle poche che lavorano con crismi e progetti rendono queste ultime uguali alle altre. Mi si dice: ma no, io neanche le vedo le ciofeche. Già. Ma chi neanche le vede è perché ha uno sguardo allenato, uno sguardo che sa. Ma chi non sa? Perché 66ecc. (perdonatemi, il nome non lo imparerò mai) è meglio, immensamente meglio della Santi e templari? Che strumenti ha chi arriva al Lingotto per capirlo? Nessuno. Io, se fossi 66ecc o tutte le altre case editrici che fanno un lavoro egregio citerei il Salone per danni)

A chi legge. Oddio qui mi permetto di dubitarne assai.

 

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Ma appena scrivo mi accorgo che no, che ho torto e all’improvviso capisco che sono legato ad un’idea di lettura ormai desueta, che il Salone e i suoi organizzatori e le sue organizzatrici scalpellano con scienza e incoscienza e che è contro questo che io mi scaglio perdente e dunque un po’ patetico.

Leggere, ci stanno dicendo da anni, consoni senza farlo parere, è un’esperienza, è stare insieme, è condividere, è la felicità.

Non è capire, non è essere interrogati da un testo, non è vivere nel dubbio e non è imparare a leggere il mondo –come tanti anni fa diceva Blumenberg,

Leggere è ora un’incantata felicità, è un moto dell’animo, è un salto del respiro, è stare insieme agli amici ad occhi sognanti.

Quando finalmente i TQ, che sembravano dispersi e invece sono trionfanti, saranno C o anche S, i V del tempo potranno con distacco decifrarne il gigantesco danno che hanno inferto a tutti noi con le loro collusioni giustificate con la gioia, con la mancanza di rigore giustificato con l’amicizia che li unisce nel bene, con l’esser tutti tesi ad esser felici, a commuoversi, a guardarsi con gli occhi lucidi a dire eih ce l’abbiamo fatta; io allora aimé sarò troppo † per poter testimoniare contro questa progenie di Veltroni che da direttore dell’Unità vi allegò le figurine dei calciatori, per questi nipoti di Fazio e Baglioni che giustificarono con la nostalgia gli abissi del banale, per queste dirimpettaie di Platinette che si traveste per dar voce al conservatorismo più bieco.

Questa comunità di lettrici e lettori che vanno costruendo, di programma radio in programma radio, di Salone in Salone, e di Festa in Festa ma soprattutto di recensioni reciproche, di prefazioni incestuose, di curatele affettuose, di incontri, di party, di conferenze stampe, di status in un vortice inestricabile di consanguineità venduta come serendipity incantata, questa comunità felice e gioiosa di supporter, di gruppi facebook, di io sono come te e tu sei come me e questo è bellissimo, al Salone era come un bimbo nella bambagia o in quelle vasche di palle che i centri commerciali allestiscono per stordire i bambini mentre i genitori fanno acquisti.

La lettura sembra –come la scrittura–, per chi partecipa di quella felicità, essere una prosecuzione della propria vita relazionale, del proprio essere sociale, una pratica intessuta di relazioni, di scambi, di incontri. Autore, autrice, i loro libri, la loro presenza fisica, sono un impasto indissolubile al quale questa nuova specie di lettrici e di lettori vuole partecipare e che trova nel Salone la sede per celebrare questa unione ludico-mistica.

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Uniti nell’abbraccio chi scrive e chi legge e chi legge e chi scrive credono d’essere il mondo e così di non doverlo decifrare. Ciechi al fatto che un passo più in là ci sia il mondo. Di quel mondo, che vaga per il Salone senza strumento alcuno, non s’accorgono, non s’interessano. Santi e templari dati in pasto all’ignaro sono come i testi simil-porno che Savelli o Feltrinelli pubblicavano negli anni ’70 per far cassa; vieni, porta i tuoi soldi Santo e templare così che io ancora possa ballare, in ogni caso: non ti vedo.

Io a questo abbraccio non voglio partecipare, mi infastidisce e mi disgusta. Di chi scrive un testo mi frega nulla, non voglio sentirlo parlare, non ci voglio prendere un caffè. Se una persona che scrive su FN pubblica un libro, non ne parlo; se un grafico fa un progetto fighissimo ma siamo amici, non ne parlo; se su FN si scrive di un libro o lo si fotografa e quel libro me l’ha mandato l’editore, lo dico. Quando leggo mi chiudo in camera e taccio e voglio silenzio e non voglio essere intrattenuto, non voglio che quel libro mi conforti o mi aiuti a superare il tedio dei miei giorni; per me la lettura –e la scrittura– sono un esercizio critico, sono il luogo dove si tenta di decifrare il mondo, sono il luogo dove faticosamente si tenta di rendere afferrabile ciò che non lo è, consci dell’illusione che il tentativo rappresenta.

I libri soffocano nelle voci confuse delle folle, s’annichiliscono e muoiono, molti, ridotti a salatini per il rinfresco o a merendine per il picnic diventano vaghi simulacri dell’intenzione che li produsse, oppure rifulgono della luce dei capolavori, se per quello sono stati prodotti.

 

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Ma ben mi accorgo che anno dopo anno a quest’idea, corrente quando ero meno vecchio, mi tiene una parzialità che ora è evidente e un tempo non era tale; è frutto di decenni di lavoro intellettuale che ha prodotto i libri che ho letto, le riviste, i giornali, i film, le mostre sulle quali mi sono formato e che ora, in un lampo, non è più scontata, ma un’opzione morente.

 

Osservando il mondo che conosco con l’occhio teso a coglierne i mutamenti per quanto riguarda i diritti, so quanto sia patetica la resistenza al nuovo che nasce. Il mondo di chi pensa che le persone omosessuali siano da uccidere o da stigmatizzare o da canzonare è un mondo che sparisce –da queste parti– malgrado le riluttanze strenue di un manipolo di resistenti.

Ci sono mutamenti irreversibili. La solitudine, l’autonomia, lo studio silenzioso, sono anch’essi residui di un’epoca che va finendo. Come tutti quelli che vanno lasciandosi alle spalle –da mo– la giovinezza, anche io non so –non voglio– adeguarmi al nuovo.

 

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Non so cosa farò; può darsi che infine inizi a usare il privilegio che l’età mi concede: guardarmi indietro. Se riuscirò anche a descrivere ciò che vidi e ora vedo, ne sarò contento.

federico novaro

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