RIDERE CON PROUST, di Giuliana Giulietti
Un giorno anche i miei libri, come il mio essere di carne, avrebbero certo finito per morire. Ma bisogna rassegnarsi a morire. Si accetta il pensiero che fra dieci anni noi, fra cento anni i nostri libri, non ci saremo più. La durata eterna non è promessa ai libri più che agli uomini.
Così Proust in una delle ultime pagine del Tempo ritrovato e fa una certa impressione rileggere queste sue parole nel momento in cui in tutto il mondo – in Francia e in Italia, in Germania e negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone – studiosi e lettori comuni celebrano il centenario della pubblicazione di Dalla parte di Swann, il primo volume di Alla ricerca del tempo perduto uscito nelle librerie parigine il 14 novembre del 1913.
Cento anni sono dunque trascorsi e la Ricerca anziché cadere nell’oblio come Proust temeva è diventata il capolavoro dell’età moderna. Un capolavoro che oggi però è più famoso che letto. Le cifre delle vendite dei diversi volumi del romanzo ci dicono infatti che Proust perde metà dei suoi lettori dopo Dalla parte di Swann e un’altra metà dopo All’ombra delle fanciulle in fiore.
Me ne chiedo la ragione. Forse sono le tremila pagine della Ricerca a scoraggiarne l’intera lettura (soprattutto nella nostra epoca dominata da Internet, dalle immagini e dove si legge sempre meno) o la convinzione di dover affrontare un’opera seria , noiosa, difficile. Niente di più errato.
È vero, la Ricerca è un’opera sul dolore, la crudeltà e la morte, ma è anche un’opera di straordinaria comicità.
Si ride molto con Proust e lui stesso amava ridere, prendere in giro la gente, fare imitazioni come quando agitava le mani, rideva e batteva i piedi al modo del conte Robert de Montesquiou ( uno dei modelli del barone di Charlus) . Basta leggere il suo epistolario e la sua biografia per rendersene conto. Proust – ha scritto Jean -Yves Tadié – è il più grande autore comico del XX secolo e io sono pienamente d’accordo con lui. Comicità e tragedia s’intrecciano nella Ricerca esattamente come accade nella vita e fin dalla prime pagine di Swann l’universo proustiano si popola di una moltitudine di ridicoli e di buffoni.
Sono comici il nonno del narratore con il suo eterno, in guardia, in guardia; le zie Flora e Céline, due anziane signorine di così elevate aspirazioni che ogni volta che la conversazione a tavola prende un tono frivolo o banale, ad onta dei loro tentativi di riportarla su un qualche oggetto estetico o virtuoso, si estraniano al punto che il nonno per richiamare la loro attenzione deve far ricorso ai quei segnali fisici di cui si servono i medici alienisti con certi maniaci della distrazione: colpi battuti a più riprese su un bicchiere con la lama di un coltello, accompagnati da un brusco richiamo della voce e dello sguardo.
Tra i ridicoli di Combray c’è lo snob Legrandin, l’ingegnere poeta che parla come un libro stampato: Cercate di conservare sempre un lembo di cielo sopra la vostra vita, fanciullo mio; e che camuffa la propria ambizione mondana (e non avrà pace finché non riuscirà ad entrare magari da una porticina di servizio nel “giro” dei Guermantes) attaccando violentemente i nobili fino a imputare alla Rivoluzione di non averli ghigliottinati tutti.
In Un amore di Swann la prima buffona che incontriamo è Madame Verdurin, la spietata padrona del “piccolo clan”.
Appollaiata sul suo seggiolone svedese di abete lucidato come un uccello sul trespolo, Madame Verdurin presiede alla conversazione dei “fedeli” nel corso delle loro serate, supplica il pianista di non suonarle Wagner e non perché quella musica non le piaccia. Al contrario, ne riceve un’emozione tanto violenta da farle venire l’emicrania e renderla incapace, il giorno, dopo di alzarsi dal letto. Alla minima battuta lanciata da uno degli habitués contro i noiosi (cioè gli aristocratici che lei segretamente adora e invidia al pari di Legrandin) Madame Verdurin emette gridolini, chiude gli occhi (che altrimenti se ride le si sloga la mascella) e bruscamente assume l’aspetto di qualcuno che si sforza di reprimere, di annientare una risata che, se vi si fosse abbandonato, gli avrebbe fatto perdere i sensi.
Meravigliosamente comiche sono le pagine dedicate alla serata musicale in casa di Madame de Saint-Euverte dove si reca il povero Swann tradito e abbandonato da Odette e qui ad essere presi di mira non sono più i borghesi ma gli aristocratici piccoli e grandi con le loro manie, le loro pose, la loro mediocrità.
Nessun personaggio della Ricerca – sia dalla parte di Swann che da quella di Guermantes, a Combray a Parigi a Balbec- si sottrae allo sguardo divertito di Proust e non c’è situazione dolorosa che non abbia un suo risvolto comico e non c’è ridicolo o buffone che non abbia in sé almeno un tratto di malvagità.
Leggere Alla ricerca del tempo perduto – e non certo fermandosi a Swann ma proseguendo di libro in libro il cammino fino al Tempo ritrovato – è invero una straordinaria avventura dove ciascuno di noi si mette in gioco diventando – come Proust si augurava- lettore di se stesso. Un’avventura in cui facciamo esperienza- esattamente come nella vita- del disorientamento, dello stupore, della commozione, del dolore, del riso. Quel riso allegro, beffardo, cattivo, gentile che risuona nelle pagine nel più grande capolavoro del Novecento e al quale oggi, noi viventi del XXI secolo, rendiamo omaggio.