La paura della lince, di ANTONELLA CILENTO / Rogiosi 2012. FUORISEDE, di Mariolina Bertini: 12
La paura della lince, di Antonella Cilento
•
Fuorisede, di Mariolina Bertini
12: Un giallo surreale nella Napoli più vera che c’è
•
con un ritratto di copertina di Paola Monasterolo
•
•
Inutile far finta che il paesaggio del giallo sia rimasto eguale a se stesso dopo Fred Vargas.
Può risultare antipatica a molti, la giallista francese, per la sua incauta e viscerale militanza pro Cesare Battisti e per gli esiti sfacciatamente trionfali dei suoi romanzi, insuperabili nel prendere il pubblico femminile per il verso giusto. Eppure la sua cifra, che al centro di una cornice a grandi linee realistica focalizza un particolare assurdo, surreale, spiazzante, sta lasciando un segno ed esercita un fascino evidente anche su narratori (narratrici, soprattutto) che da quel punto di partenza partono poi in direzioni risolutamente diverse e molto personali.
Quali sono le venature –azzardiamo l’aggettivo– fredvargassiane de La paura della lince, sontuoso giallo napoletano, fedelissimo ai canoni del romanzo d’azione ma nutrito di una visione del tutto anticonvenzionale della realtà cittadina? Da un lato l’incongruo dettaglio da cui la vicenda propriamente “gialla” prende le mosse -le scarpe verdi, con il tacco alto, della protagonista, che inspiegabilmente compaiono sulla scena di un omicidio– e dall’altro l’atmosfera “gotica” di certe scene “de paura”, che trascinano il lettore deliziato nelle viscere di una Napoli tellurica e catacombale, sconosciuta ai più, ma di una realtà assoluta, precisa, tangibile.
È proprio lo spessore della realtà evocata a differenziare radicalmente La paura della lince dai gialli di Fred Vargas, in cui hanno un autentico rilievo soltanto le notazioni psicologiche dell’autrice e quegli eventi o quegli oggetti che con la loro disorientante stramberia sembrano mettere in pericolo la logica stessa del corso del mondo, sino al momento in cui l’accidioso Adamsberg, con un’intuizione decisiva, rimette le cose a posto.
La Napoli in cui si svolge il romanzo di Antonella Cilento ha invece, sin dalle prime scene, una presenza così forte, così invasiva, così “a tutto tondo”, da segnare profondamente l’intreccio della vicenda e il profilo stesso della protagonista. Prima ancora di capire qual è la posta in gioco di questo noir, ci accorgiamo che la città che gli fa da sfondo non ha nulla di scontato; la sua verità coinvolge il lettore quanto la finzione ben calibrata dell’avventura poliziesca, cui d’altronde si intreccia inscindibilmente.
Agli antipodi dei best seller mainstream, dagli sfondi anonimi e riutilizzabili come quelli di certe fictions televisive, La paura della lince non potrebbe fare a meno dei luoghi concreti che fungono da cornice alle disavventure della protagonista, Aida Festa, giovane e simpatica insegnante precaria. Perché quei luoghi interagiscono con Aida e formano, con la sua vita, uno gliommero, un groviglio come quello che il commissario Ingravallo cercava vanamente di districare nel Pasticciaccio.
Dal museo in perenne ristrutturazione, minacciato da incendi dolosi, in cui tutto comincia, alla chiesa di via Poerio, dove cingalesi e filippini corteggiano le slave “con i capelli permanentati anni Ottanta”; dai divanetti “di un ostile design anni Sessanta” che popolano i saloni rococò di un facoltoso pellicciaio, alle voragini scavate nel tufo che sembrano perdersi nelle viscere della terra, non c’è luogo o dettaglio, nella Paura della lince, che non abbia il sapore, il colore, la consistenza del reale.
Il racconto si snoda sospeso tra verità sociologica e archetipi mitici, tra agnizioni da tragedia greca e particolari della quotidianità più prosaica: è il suo fascino, la sua peculiarità, la sua forza.
Ci saranno lettori più calamitati dall’aspetto giallo, dal mistero del quadretto secentesco in cui compare la lince terrorizzata del titolo, mentre altri saranno più sensibili alla percezione della realtà napoletana, alla sua resa in un linguaggio che non è mai standard.
Pur appartenendo da sempre alla schiera dei fanatici dell’intreccio, questa volta capisco bene le ragioni del secondo gruppo di lettori e vi sottopongo, per renderle più evidenti, questa breve passeggiata della protagonista sul Rettifilo:
“Fra torsi nudi di tritoni e cornucopie ingrigite, i lumi Belle Epoque stentavano a far luce, oscurati dal neon dei negozi di abbigliamento, che esponevano prezzi sempre più bassi man mano che si avvicinava la Stazione. Aid rallentò. Fra i magazzini cinesi con le vetrine coperte di carta e gli outlet per le ganzette di Forcella e Foria, resisteva un negozio Armani. Tutt’intorno, negli anfratti trecenteschi del Borgo Orefici, si conservava, in decorosa ma palese decadenza, la città commerciale che ai primi del Novecento era stata ricca, ambita da investitori svizzeri, architetti francesi, mercanti di corallo cinesi, americani e arabi.. Si fermò a un’edicola: l’uomo dei giornali stava raccogliendo i pacchi delle rimesse. Ed ecco l’idea: si sarebbe presentata come giornalista (…) Adesso che aveva deciso gli antichi caffè della strada presero a scorrerle rapidi alle spalle: si sentiva elettrica, come le pile nel deserto dei fronti libici che avevano fatto la fortuna delle aziende del Rettifilo durante la guerra; come le lampade al magnesio dei fotografi dei primi del secolo scorso: intorno a lei gli anziani eredi di quelle scomparse imprese stavano per cenare nei palazzi decaduti, fra tappeti persiani tarlati e gatti obesi.“
•
Fuorisede, di Mariolina Bertini
12: Un giallo surreale nella Napoli più vera che c’è
•
con un ritratto di copertina di Paola Monasterolo
•
Antonella Cilento, La paura della lince, 232 p. ; cartaceo, 16€, Rogiosi, Napoli 2012.