Capri: 2 / Compagni di viaggio, di Massimo Scotti.
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Souvenir de Caprí
di Massimo Scotti
2: Compagni di viaggio
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Due buoni compagni di viaggio
Non dovrebbero lasciarsi mai
Potranno scegliere imbarchi diversi
Saranno sempre due marinai
FRANCESCO DE GREGORI
Tanti anni dopo, in una giornata dalla luce incerta che annuncia la pioggia, fra le colline, ripenso a Capri e la vedo dipinta in un quadro di Demetrio, tutto quanto azzurro. E penso anche che nella vita l’importante è scegliersi sempre ottimi compagni di viaggio, come dice De Gregori. Ne ho avuti tanti, per mia fortuna, e una regina del viaggio perfetto era Giovanna. Dove andava lei brillava sempre il sole, sapeva scegliere l’albergo giusto e non si annoiava mai. Proprio sull’isola decise che saremmo andati, in un anno che potrebbe essere stato, chi lo sa, forse il 1996. Mi stupiva la scelta: Capri? Di tutti quelli che conoscevo, non c’era mai andato nessuno.
Per quanto ne sapessi, era l’isola delle pelliccerie, anche in piena estate, e dei gioiellieri, dove tutto era rinomato e carissimo, invariabilmente chic, certo, ma almeno altrettanto démodé.
L’idea che avevo di Capri è perfettamente sintetizzata nella pubblicità di un celebre orologio da polso, un incubo di pietre multicolori incastonate su una padella. Su uno fondo monocromo, a far da contrasto, l’immagine dei Faraglioni sotto un cielo tenebroso.
E si partì quindi per Capri, verso la fine di giugno, dal Molo Beverello quasi deserto. Su un aliscafo anche quello semivuoto. Varcavo per la prima volta nella mia vita il Golfo, tra spruzzi di schiuma bianca e un penetrante, squisito odore di nafta.
Al porto eravamo indecisi se salire con la Funicolare oppure con uno di quei taxi ricavati da carrozzerie anni Cinquanta adibite a furgone, ma Giovanna disse che per una decapotabile era d’obbligo il foulard, quindi niente. Funicolare per forza, anni Cinquanta addio.
Il nostro albergo era Villa Krupp, dove ci aspettava un gestore caloroso e furbissimo che appena ci vide arrivare disse sottovoce “Vi ho riservato la stanza in cui abitava Gor’kij!”. Non potevamo crederci, e forse facevamo bene, perché credo che lo dicesse a tutti (e Gor’kij in realtà aveva preso in affitto tutta la casa, quindi ogni stanza era la sua).
Rimasto solo sulla terrazza, in compagnia di una sigaretta, mentre Giovanna faceva la doccia, mi ero trovato di fronte a un cielo che impallidiva prima di farsi buio, e a una montagna coperta di ville bianche. L’aria aveva un bel color pervinca e il verde nero dei boschi faceva risplendere i muri di calce candida. Ero sulla terrazza della stanza di Gor’kij e accanto a me c’era la colonna di un pergolato su cui un tempo forse crescevano le viti o i glicini. In quel momento era vuoto. Un po’ stupidamente mi dicevo, così tra me, “Ecco, sono a Capri”. Dev’essere stato proprio allora che ho davvero contratto il morbo. È come quando Henry James racconta di aver accostato le labbra per la prima volta alla coppa mediterranea: provato una volta, quel veleno non smette più di fare effetto (“Amori sublimi veleni” cantava Mia Martini, insieme a Roberto Murolo, se non sbaglio).
Così la malattia d’amore per Capri ha avuto inizio, e il giorno dopo – siccome gli amori e i libri sono cose inscindibili – siamo andati a cercare una libreria. Ci eravamo messi delle magliette a righe, senza sapere di assomigliare a Totò quando va a Capri e incontra Franca Valeri, in un episodio indimenticabile di Totò a colori.
Ne avevo trovate alcune nell’armadio, e pensavo: “Queste quando me le metto?”. Quindi le avevo portate con me e ne avevo prestata una, con le maniche lunghe, a Giovanna, che aveva le braccia un po’ scottate. Così il libraio si era trovato di fronte due emuli di Totò che gli chiedevano, un po’ vispeterese, “Esiste per caso un libro sull’isola?”.
Con sussiego misto a velato disprezzo, lui ci porse l’imponente librone verde di Ciro Sandomenico, dal titolo Leggere Capri, che contiene un elenco di titoli capresi, che sono migliaia.
Scoprivamo in quel modo che Capri è un’isola-biblioteca, in cui si è scritto molto e su cui si è scritto moltissimo, da tempo immemore.
Esistono autori addirittura specializzati in libri su Capri. Ma non li amo solo per il tema che hanno scelto, bensì perché sono bravissimi scrittori; i più grandi sono due: Edwin Cerio e Norman Douglas. Se proprio dovessi scegliere, pistola alla tempia, dalla Bignardi, sarei costretto a dire il secondo, ma con rammarico. Scelgo lui perché Douglas sarebbe stato grande ovunque fosse vissuto e di qualunque cosa avesse parlato, mentre Cerio non sarebbe stato Cerio senza Capri. Ma due scrittori così oggi sono davvero introvabili.
Cerio era di madre inglese e di padre italiano, fu per lungo tempo sindaco di Capri ed era innamorato della mondanità isolana, di cui ha parlato in molti libri; sarebbe stato felice di scoprire due piccoli e tardivi ospiti dell’isola, come noi, in compagnia di qualche vip in incognito, che si era portata dietro Francesca, la sorella di Giovanna. Stava facendo giusto allora un viaggio in barca a vela nel Mediterraneo e passò a trovarci insieme a quei suoi amici famosi e segreti, dei quali non posso rivelare i nomi anche perché li ho dimenticati. Ma Cerio, ripeto, sarebbe stato fiero di noi, lui che aveva una passione per gli eccentrici in incognito e scrisse un libro in cui riuscì a parlare di molti pettegolezzi isolani nascondendoli in un arguto discorso botanico: Flora privata di Capri.
La storia che mi piace di più, fra tutte quelle che racconta Edwin Cerio, è quella delle mucche inglesi strappate con l’inganno ai loro verdi pascoli.
In un certo periodo della sua storia, a Capri si iniziò a sentire la mancanza di allevamenti. I bambini erano senza latte e allora si credeva che la carne bovina fosse una panacea per tutti i mali.
Dunque si andarono a trovare certe mucche inglesi, floride e felici, libere in campi sconfinati, e si promise loro un futuro di villeggiatura eterna nei Paesi del Sole; un po’ immalinconite dai cieli britannici, spesso plumbei, le mucche accettarono con entusiasmo e vennero così portate a Capri, dove, scrive Cerio, “furono rinchiuse in cupe stalle, e nutrite quasi esclusivamente di illusioni”.
Dalla madre Cerio aveva ereditato l’umorismo inglese, freddo e irresistibile, che pervade ogni sua pagina, come del resto ognuna delle pagine scritte dal suo amico Douglas, ideatore di titoli incantevoli: Siren Land (La terra delle Sirene) o South Wind (Vento del Sud).
La “vita indecente” di Norman Douglas è stata narrata dallo stesso autore della bibliografia caprese, Ciro Sandomenico, e ne parleremo ancora, ma adesso vorrei ricordare qualche altra visita e qualche altro amico che ha avuto la gentilezza di venire con me in anni non troppo lontani.
Il secondo compagno di viaggio che ho portato a Capri è stato Tommaso: non mi chiedevo neanche se gli sarebbe piaciuta o no, ormai era come se invitassi gli amici a casa mia, si andava e basta.
Gli avevo chiesto, prima di salire sull’aliscafo: “Tu lo soffri, il mare?”.
“No no”.
Era arrivato verde. Ma proprio un bel verde militare, grigiastro. Eppure non si era lamentato. Una granita di limone e via, a scoprire l’isola: peccato che piovesse a dirotto. Aveva fatto finta di niente. Gli piaceva e basta.
Eravamo andati in giro dappertutto, fino a Villa Jovis, dove per grazia imperiale la pioggia si era un po’ calmata, ma ricominciò subito dopo, per accompagnarci tutto il giorno; un ragazzo che affronta la nausea e la pioggia battente solo per renderti felice ha senz’altro qualcosa di eroico, specialmente se lo fa senza un gemito.
Cercando di evitare le pozzanghere pensavo e ripensavo a quel capitolo di Siren Land dal titolo “Pioggia sulle colline”. Un vero scrittore come Douglas sa descrivere anche la noia come qualcosa di malioso e di elegante, magari facendo del tempo piovoso un’elegia malinconica e seducente sulla fine dell’estate e della giovinezza (che poi sono più o meno la stessa cosa).
Anni dopo tornavo a Capri con Erica e Maria, che aveva fatto questa osservazione arcana: “Sulle isole di solito i costumi si rilassano”. Credo che in nessun luogo del mondo si siano rilassati come a Capri, e raccontavo a sua figlia (Maria è la madre di Erica), a bassa voce, tutte le cose peggiori che erano capitate sull’isola, e lei rideva a più non posso; Maria voleva saperle anche lei ma io avevo paura di scandalizzarla. Non si scandalizzò.
Fu il pranzo più ricco di pettegolezzi sconvenienti che io ricordi, quello che facemmo in una piccola spelonca adibita a pizzeria, che ora purtroppo ha chiuso.
Arriviamo così al viaggio con Demetrio, anche lui subito conquistato dall’isola e soprattutto dalla Piazzetta. Non potevo immaginare che gli piacessero così tanto entrambe, e soprattutto che riuscissi a fargli visitare Villa Lysis, la casa del Barone Fersen, che di Capri fu adoratore e vittima.
Andare là con Demetrio per me era come realizzare un’utopia.
Ci ospitò sull’isola una signora gentilissima che aveva un piccolo residence sotto i Giardini di Augusto, e che poi per anni ci mandò gli auguri a Natale.
Ogni sera avevamo il nostro tavolino sulla Piazzetta, per aspettare le sfilate dei ricchissimi, dei mondanissimi e delle camafre.
Il termine “camafra” era stato introdotto nel nostro lessico privato da Francesca, e indicava, con una sonorità grezza e sopraffina, le bellezze indigene, le ragazze locali, agghindatissime e frettolosamente ansiose di far colpo. Su chi? Mah. Fatto sta che uscivano in schiere compatte e vocianti dall’arco che conduceva alla Funicolare, ribattezzato subito da Demetrio “lo sparacamafre”. Come pallettoni da un fucile sempre carico, le adolescenti schizzavano sulla Piazzetta sature di firme alla moda, vacillanti su tacchi impervi, gravate da monili di lusso e pronte assolutamente a tutto pur di apparire, farsi notare, riscuotere attenzione, magari la preziosissima attenzione di un regista di passaggio, ansioso di lanciarle in tv.
Nel frattempo si lanciavano da sole, sulla Piazzetta, perpetuamente indaffarate, a far che non si sa, e dopo svariati giri da mosconi ronzanti venivano risucchiate da qualche cave segreta, a schiantarsi di cocktail mefitici e noia da jazz.
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Souvenir de Caprí
di Massimo Scotti
1: La ballata dell’isola perduta
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