LIALA LOVES ZOLA!, di Mariolina Bertini
Liala
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Grazie Liala, a cura di Mariolina Bertini
con un ritratto di parola di Christel Martinod
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6: Liala loves Zola!: Cenerentola, Cappuccetto rosso e Chiamami con un altro nome
di Mariolina Bertini
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Come ben sanno le lettrici fedeli, nei romanzi di Liala le citazioni letterarie sono rare, di svariata provenienza e quasi sempre poste in bocca a personaggi maschili.
Le fanciulle alle quali vengono somministrate come pillole di saggezza non si lasciano intimidire e spesso sbuffano con impazienza al nome di quegli autori morti da tempo che a loro interessano ben meno dei maschi vivi e in buona salute.
Il libro come oggetto, poi, nel mondo di Liala brilla per la sua assenza. Qualche romanzo d’amore spunta da un vecchio armadio in Bisbigli nel piccolo mondo; altrove si leggono, più che libri, riviste, e le ville accuratamente descritte, moderne o antiche che siano, sono ricchissime di bagni faraonici e di sontuosi salotti da fumo, ma del tutto carenti di biblioteche.
Fa eccezione la villa ligure (ispirata a quella dei Cambiasi a Moneglia) dove trascorre qualche tempo la protagonista dell’autobiografico Ombre di fiori sul mio cammino; nella vasta biblioteca di cui è dotata, però, Liana Egret trascura completamente i volumi a favore delle lettere di alcune nobildonne ottocentesche, conservate insieme a ciocche di capelli e a miosotidi di smalto. Persino i romanzieri, in Liala, li vediamo con un libro in mano soltanto quando devono autografare la copia di una loro opera destinata a un’ammiratrice: tanto il Willy Grant di Il sole se tramonta può tornare quanto il Silvano Flores di Una carezza e le strade del mondo dimostrano di interessarsi alle ragazze in carne ed ossa ben più che alla carta stampata.
Non è una “biblioteca di Babele” l’universo di Liala, e l’opinione di Mallarmé che il mondo esista soltanto “pour aboutir à un livre” non potrebbe mai riscuotere la sua approvazione.
Gli autori che ogni tanto fanno capolino nei suoi romanzi -D’Annunzio, Fogazzaro, Virgilio Brocchi– hanno certo statuto di modelli, ma sono evocati con parsimonia; rarissimi i casi in cui, come nei Gelsomini del plenilunio, una citazione (nella fattispecie di D’Annunzio) apre e chiude il racconto, offrendosi alla protagonista come una sintesi ante litteram del suo destino.
In un’unica occasione mi è parso di riscontrare un esempio di quella che gli accademici degli anni ottanta chiamavano “intertestualità’”: l’appropriazione implicita, da parte di Liala, di un intreccio altrui.
Su questo unicum vorrei ora soffermarmi, rintracciando all’origine di Chiamami con un altro nome (1958) un debito inconfessato ma a mio parere evidentissimo nei confronti del Paradiso delle Signore (Au Bonheur des Dames) (1883) di Emile Zola.
Al Paradiso delle Signore , tradotto da Ferdinando Martini nell’anno stesso della sua pubblicazione in Francia, ha molto circolato in Italia, in diverse edizioni; non è noto (almeno a me) quando Liala l’abbia letto, ma dovette restare colpita dalla vicenda centrale, la storia d’amore tra il ricchissimo e affascinante proprietario del grande magazzino “Au Bonheur des Dames”, Octave Mouret, e la più povera e la più virtuosa tra tutte le commesse del “Bonheur”, la provinciale Denise, che alla fine del romanzo diventerà, inopinatamente, sua moglie.
I critici dell’epoca, che avevano spesso accusato l’autore di Nanà di cinismo e pornografia, restarono piacevolmente stupiti davanti a quella che parve loro una moderna versione della fiaba di Cenerentola; Liala, a mio parere, dovette apprezzare in quel corposo romanzo, fittissimo di descrizioni lussureggianti, uno dei più perfetti archetipi del rosa classico, in cui si fronteggiano dall’inizio alla fine un uomo virilissimo (Mouret è un autentico dongiovanni), conteso e prestigioso, e una povera orfanella angariata e calunniata, che fa da mamma ai fratelli e rifiuta ostinatamente di cedere all’uomo che ama, a meno che lui non si decida a portarla all’altare (come alla fine farà, stremato da un desiderio tanto violento quanto irresistibile).
Quando, nel 1958, Liala pubblica Chiamami con un altro nome, il titolo sembra rimandare al consueto modello dannunziano: è infatti una citazione letterale -benché non segnalata– da Il Trionfo della morte.
Eppure l’ispirazione di una delle due storie d’amore su cui il romanzo è costruito deriva evidentemente dal Paradiso delle Signore, pur approdando a un esito in un certo senso opposto. Protagonisti del romanzo sono due industriali di origine svizzera: i cugini Oddo e Oliviero Viningher. Tra i due, quello che eredita il dongiovannismo e la sotterranea passionalità di Octave Mouret, è Oddo. Sposa, quasi per capriccio, una bionda contessina e immediatamente la trascura, mentre di lei si invaghisce il cugino saggio e lavoratore, Oliviero.
In Zola, per una sorta di nemesi, il predatore Mouret finiva supplice in ginocchio davanti all’orfanella Denise; in Liala un destino analogo porta Oddo Viningher a ritrovarsi schiavo d’amore della più povera e della più ferocemente virtuosa delle sue operaie, la piccola sarda Lora Sau.
Come Denise, Lora è, tra le sue compagne di lavoro, la peggio vestita; spicca soltanto per la bellezza degli occhi e per “la cascata nera dei capelli splendenti”. Un manto di indomabili ricci biondi avvolge Denise, mentre Lora Sau spicca per la “gran chioma nera” che contrasta con gli occhi chiarissimi: in entrambe l’elemento di fascino è la capigliatura incolta, selvaggia, che non si lascia imbrigliare, così come Denise e Lara non si lasciano allettare dalle lusinghe dell’uomo che le desidera disperatamente.
Il parallelismo tra le situazioni delle due coppie –Mouret e Denise, Oddo e Lora – è impressionante: l’orfanella, la piccola “selvaggia” (il termine ricorre in entrambi i testi) esaspera inconsapevolmente, con la propria resistenza, il maschio detentore del potere e della ricchezza; l’uomo, che inizialmente suscita nella ragazza soltanto una confusa “paura” (anche questo dato è comune ai due romanzi), passa dal desiderio a una passione profonda, di cui prima non aveva mai fatto esperienza.
Per quanto siano sovrapponibili, nei dati iniziali, il destino della coppia Mouret-Denise e quello della coppia Oddo-Lora, l’intreccio di Chiamami con un altro nome si sviluppa, dalla metà del libro, in direzione opposta a quella dell’ottimistico Paradiso delle Signore.
A differenza di Mouret, che è vedovo, Oddo non è libero di offrire a Lora, come vorrebbe, il matrimonio. Vorrebbe divorziare all’estero ma Lora, davanti a questa soluzione che spezzerebbe il cuore alla legittima e incolpevole consorte del giovane industriale, sceglie il male minore e, per salvare dalla miseria la madre e i fratellini, accetta di diventare la mantenuta di Oddo, di cui finirà per innamorarsi. Oddo, pazzo di felicità quando Lora si prepara a dargli un figlio, la trascina con sé in una fuga all’estero che terminerà tragicamente, con la loro morte in un disastro aereo.
L’unico lieto fine di Chiamami con un altro nome è riservato al virtuoso cugino Oliviero, che troverà la felicità accanto alla vedova del cugino, da lui adorata sino ad allora cavallerescamente e senza speranza.
Trapiantata nella Lombardia degli anni Cinquanta, la vicenda della popolana adolescente, desiderabile perché intatta e selvaggia, volge dal rosa al nero.
Liala si ispira alla versione zoliana di Cenerentola, ma la sua Lora Sau è piuttosto una Cappuccetto Rosso eroica ma perdente, che finisce per soccombere agli assalti del seducente lupo cattivo incarnato da Oddo Viningher.
Il destino di Lora segnato dalla caduta, dall’impossibilità, dal fallimento, è più credibile dell’apoteosi di Denise nel grande magazzino tutto pavesato di bianco come una cappella nuziale: riscrivendo Au Bonheur des Dames Liala era evidentemente intenzionata a impartire a Zola una postuma lezione di realismo.
Questo non le impedisce però di nutrire, in segreto, un’ammirazione sincera per il suo modello. Ce lo rivela un particolare inconsueto e un po’ dissonante.
È molto raro che i personaggi di Liala si dilunghino in interpretazioni filosofiche o psicologiche del proprio operato; lo fa però Oddo Viningher, mettendo a dura prova la pazienza del cugino Oliviero.
Si propone di spiegargli l’origine della propria passione per Lara, e ricorre niente meno che a una versione un po’ semplificata della teoria dell’ereditarietà, rievocando i suoi antenati:
“Io che ho tutto, ma che ho nel sangue la memoria di lontane privazioni, di lontane miserie, di tremende fatiche e di strazianti rinunce, ho bisogno, per non impazzire, di qualcuno che a sua volta abbia bisogno di me. (…) Non sono io colui che va verso Lora Sau, ma il mio vecchio sangue di contadino, l’atavico sangue dei primi Viningher che lavorarono i campi.”
Con questo richiamo evidente alla genetica zoliana, alle teorie su cui poggia tutta l’immensa saga dei Rougon-Macquart, Liala strizza l’occhio al lettore avveduto e rende omaggio al modello di Chiamami con un altro nome.
Al tempo stesso, però, da quel modello si congeda con ironia: l’autodifesa di Oddo altro non è che il tentativo di un cinico prevaricatore di sottrarsi alle proprie responsabilità.
Dal romanzo naturalista il romanzo rosa può mutuare un intreccio, ma sul piano ideologico e morale intende mantenere tutta la propria indipendenza, con la stessa fierezza con cui le sue eroine difendono la rigorosa autonomia delle proprie scelte d’amore.
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Grazie Liala, a cura di Mariolina Bertini
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6: Liala loves Zola!: Cenerentola, Cappuccetto rosso e Chiamami con un altro nome
di Mariolina Bertini
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