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L’impero dei segni / Stefano Gallerani

Bar Barthes e FN mostra Barthes presentano

12 novembre 1915-12 novembre 2015

Festa per il compleanno del caro amico Roland

da un’idea di Massimo Scotti e Giuseppe Girimonti Greco

a cura di Giuseppe Girimonti Greco

[Come capita alle feste di compleanno, c’è un momento in cui ci s’alza e si racconta un aneddoto che ci lega al festeggiato, si rievoca il momento in cui lo si è conosciuto, si ripercorrono gli anni passati insieme. Sì è forse troppo indulgenti o all’improvviso si dicono cose sopite da anni; lo si fa in pubblico, di fronte a tutte le persone convenute, perché spesso i rapporti importanti, che ci hanno segnato, hanno bisogno di essere di nuovo descritti, ascoltati, festeggiati. Questo è quel che si cercherà di fare qui. Auguri!]

5. L’impero dei segni, di Stefano Gallerani

 L’impero dei segni (e l’esenzione del senso)

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La prima fotografia delle molte che concorrono a cinturare un rapporto che è ben oltre che didascalico, e cioè quella che campeggia sulla copertina della prima edizione de L’impero dei segni viene riprodotta quasi alla metà esatta del volume, a fianco di un brano di Philippe Sollers tratto da Sur le materialisme, del 1969: è uno scatto di Nicolas Bouvier, scrittore e fotografo svizzero che cinque anni dopo il saggio barthesiano pubblichera la sua Chronique japonaise. Il fotogramma, che cattura una mano che sorregge un pennello mentre traccia le linee fluide e spesse di quello che immaginiamo essere un ideogramma, potrebbe essere, metonimicamente, il particolare di un’altra celebre immagine, quella del romanziere Yasunari Kawabata nell’atto di scrivere su una enorme pergamena. Il brano di Sollers, a corredo, recita: “la scrittura, dunque, sgorga dal piano dell’inscrizione poiché si produce in seguito ad un arretramento e uno spostamento non-percepibile (cioè non faccia a faccia; e invitando di primo acchito non alla vista ma al tracciato), che suddivide il supporto in corridoi quasi a ricordare il vuoto plurale in cui essa si realizza – essa è soltanto distaccata in superficie, essa viene a tessersi in superficie, essa è delegata da un fondo che non è un fondoverso, una superficie che non è una superficie, ma fibra scritta da un sotto la verticale del proprio sopra (il pennello si tiene ritto nel palmo della mano) – l’ideogramma rientrando così nella colonna (tubo o scala), e sovrapponendosi come una complessa barra liberata dal monosillabo nel campo della voce: questa colonna può essere definita come il ‘polso vuoto’ in cui appare, in primo luogo, un ‘unico tratto’, il soffio che attraversa il braccio incavato, l’operazionie perfetta dovendo essere quella della punta celata ovvero dell’ ‘assenza di tracce’ “. Come in molti altri libri di Barthes, l’accostamento di due elementi eterogenei – un’immagine e un brano escerpito da un altro testo – è già un atto di composizione strutturale, dunque la genesi di una forma: dunque, scrittura. O pittura.
Ma dove ha inizio la scrittura? Dove ha inizio la pittura? Oppure, dove comincia l’una e dove finisce l’altra? Perché se quella occidentale è inequivocabilmente scrittura, le parole di Yokoi Yakû che Barthes chiosa con questi due interrogativi nel paragrafo intitolato “Il cibo decentrato”, corrono fluide come i contorni di un disegno, creano una rete di rimandi grafici prima ancora di svelare l’esatta corrispondenza tra segno e parola: le seconde hanno la compostezza di un quadro, la prima rimanda piuttosto a una formula algebrica. Già a partire da questa evidenza, Barthes costruisce la sua idea di Giappone in relazione a un sistema di segni rituale in cui il convitato di pietra è proprio il senso – e, per esso, la logica occidentale, improntata com’è a quella binaria, aristotelica. Per lui, il Giappone è innanzitutto la meta di una fuite verso un sistema di “tratti” prelevati da un mondo altro rispetto a quello reale – cioè quotidiano; un mondo che non si pone, rispetto a quest’ultimo, in termini di alterità: non esiste dialettica tra Occidente e Oriente, nessuno scontro – o incontro, che fa lo stesso – di civiltà, sebbene il secondo sia, di fatto, l’occasione per «accarezzare» l’idea di un sistema simbolico sconosciuto e la possibilità, allo stesso tempo, di produrre una differenza, sollecitare un mutamento rivoluzionando la «proprietà dei sistemi simbolici».

Nella pagina, è la meccanicità della rete di segni occidentale che viene contestata: la tradizione dell’irreversibilità dell’ordine logico-temporale che conferisce ad ogni narrazione un senso, ad ogni svolgimento un esito ineludibile, prevedibile. C’è dialogo nella tradizione  occidentale – ovviamente c’è dialettica – ma non conversazione, perché l’ordine del discorso è, invece, reversibile, e dunque virtuale. Partendo da qua, si chiarisce meglio l’attrazione di Barthes per il sistema simbolico giapponese e il vero tema de L’impero dei segni, ossia i significanti elementari della scrittura: il vuoto della pagina e la cavità dei suoi incisi. Pure, perché ci sia Testo è necessaria una Scrittura, ovvero le sue metafore, che sono sempre visive e gestuali, come è ben chiaro nelle bambole del teatro Bunraku (animate da tre persone visibili e una voce invisibile), che sottraggono la rappresentazione del corpo alla fisilogia: il cuore pulsante, sanguigno, è sostituito  da una verità viscerale che si traduce nell’astrazione sensibile del corpo realizzando, ancora, un vuoto, un’assenza di centro e una confutazione del concetto stesso di referenza.

Solo così, sembra a Barthes, si può realizzare l’essenza del teatro. E non solo: al di là della natura scritta del Bunraku, già la persona, il volto teatrale è non imbellettato ma scritto (mascherato nel Nô, disegnato nel Kabuki, artificiale nel Bunraku). E sempre, quando si scrive, si scrive nulla, poiché il volto non è un modello subalterno, ma scritturale, appunto, come il viso, la distesa della fronte, le sporgenze degli zigomi e la curva della bocca non fossero che un’altra, una nuova superficie di scrittura su cui ogni gesto, ogni movimento completano il tratto, lasciano un segno che però non rimanda ad alcun senso perché lo esterna, e dunque finisce per esentarlo. L’esenzione del senso, appunto, che l’haiku esprime là dove spariscono proprio i referenti – o ciò che riteniamo tale. Nelle poche stringhe di versi che lo compongono, descrizione e definizione si assottigliano fino alla pura enunciazione. Solo in questo modo, attraverso il livello più elementare di leggibilità, è possibile, secondo Barthes, minare davvero la tirannia del senso. E difatti l’haiku – allo stesso modo che la toponomastica o la cucina o il teatro – inscena una grandiosa parodia del senso proprio per destituirlo di qualsiasi autorità: lo celebra, quasi; non lo aggredisce frontalmente, ma lo irride.

Al vuoto si coniuga l’essenzialità, ed entrambi si declinano in termini pressoché astratti, d’una precisione chirurgica come quella che guida la mano nel tracciare il segno. Da questo dipenderà che la “cancelleria” giapponese di fatto non conosce strumenti di correzione, appendici della naturale indecisione che tutti prende quando siamo portati ad esprimere qualcosa.  E se la scrittura stessa determina un vuoto di parola, pure, nella sintassi – anche grafica – del giapponese, il soggetto diviene l’involucro di quella parola assente, in virtù del miracolo, per noi inconcepibile, di un verbo senza soggetto, senza complemento e ciononostante ugualmente cognitivo. Solo per questa via, parafrasando quasi integralmente Barthes, l’Oriente restituisce all’Occidente un senso, si tratti pure della deciduità del suo linguaggio.

«Impero dei segni? Sì, se si vuol dire che questi segni sono vuoti e che il rituale è senza dio».

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(questo brano, riveduto, riporta parzialmente il testo di un saggio dal titolo “L’esenzione del senso” apparso nel volumetto Barthes, Roland, curato da Filippo La Porta per Gaffi nel 2011)

 

Bar Barthes e FN mostra Barthes presentano

12 novembre 1915-12 novembre 2015

Festa per il compleanno del caro amico Roland

da un’idea di Massimo Scotti e Giuseppe Girimonti Greco

a cura di Giuseppe Girimonti Greco

1. Barthes par Barthes, di Massimo Scotti

2. Frammenti di un discorso amoroso, di Giovanna Zoboli

3. Miti d’oggi, di Guido Mattia Gallerani

4. S/Z, di Guido Mattia Gallerani

 

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