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I Seem To Be a Verb / Pietro Grandi

Futureworld 

di Pietro Grandi

28. I Seem To Be a Verb

R. Buckminster Fuller con Jerome Agel e Quentin Fiore, “I Seem To Be a Verb”, A Bantam Books, 1970.

Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifesteranno a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lascieranno.

(Paul Valery, “La conquête de l’ubiquité”, 1928)

Bianco. Nero. Verde. Tipografia. Verbo. Processo evolutivo.

Questo è Buckminster Fuller, uomo dinamico e iperattivo, immerso nella sua visione evolutiva in cui il potere della tecnologia cerca di mutare la società. Le sue idee di futuro volteggiano nell’aria e uniscono confini di discipline diverse, per poter costruire qualcosa di nuovo, mettendo al centro del discorso le nuove tecnologie. Nel 1930 col termine “Dymaxion” DY (dynamic), MAX (maximum), and ION (tension), esemplificò la sua filosofia, progettando mappe della terra, abitazioni e automobili.

“I Seem To Be a Verb”, scritto grazie all’aiuto di Jerome Agel e del designer Quentin Fiore, si sofferma sul tema del design sostenibile, esplicando la sua filosofia secondo cui “L’uomo imparò a fare di più con meno. Ciò fu la sua leva per il successo industriale.” Sfogliando le pagine, ritroviamo una capsula del tempo degli anni sessanta, un collage di immagini, giustapposte in maniera provocatoria, una ephemera di oggetti di civiltà globalizzata, un montaggio visivo e cinematico di continui rimandi; e poi ancora uno storyboard di annotazioni, tagli, dissolvenze, parole che si animano, un’enciclopedia di tipografia narrativa e di citazioni sparse in tutto il libro. L’oracolo di Fuller a caratteri maiuscoli divide il libro in orizzontale tra blocchi di appunti scritti, immagini in bianco e nero e note in verde. Ne risulta un volume che si può leggere anche sottosopra, ottenendo significati diversi.

Da un globo spaccato a metà quasi fosse un uovo di pasqua ad un arabo che porta sulla schiena un pesante televisore, da un signore che si gode il mezzo visivo su un piccolo tubo catodico ad alcuni trapezisti di un circo che volteggiano in aria, fino a un elefante che lava con la sua proboscide la testa di un uomo molto simile a Nixon ed una frase a seguito che recita: “La tecnologia moderna è la creazione di una società di tale complessa diversità e ricchezza, che la maggior parte delle persone hanno una più ampia gamma di scelta personale, una più ampia esperienza e un senso di autostima più sviluppato. Per la prima volta, l’uomo comune ha la possibilità di stabilire la propria identità, per determinare dove egli sarà.”

Un libro che mette in atto il suo “Dymaxion world”, facendone trapelare le sue evoluzioni e i suoi movimenti, accompagnando il lettore in un futuro prossimo; un mondo di “science fiction”, uno spazio virtuale; come l’immagine di un piccolo microchip appoggiato su una moneta da 1 dollaro con incisa una parola che ha ormai perso il suo significato:“LIBERTY”.

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[Intento di FN è stato, da subito, quello di costruire archivi; dei fondachi di materiali che trasportassero in rete quel che la rete fa sparire: la carta. C’è una separazione radicale e mal segnata fra il cartaceo e il virtuale. In rete se si cerca la carta non la si trova, si trovano le parole che la carta portava su di sè, ma niente che ci dica dove fossero quelle parole, che aspetto avesse l’oggetto che le conteneva. Chi volesse studiare ora editoria in rete trova ben poco, se non parole, che non bastano. Questa nuova serie, Futureworld, a cura di Pietro Grandi, interpreta al meglio quell’intento che FN insegue da sempre. (N.d.D.) ]

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