Futureworld – Materiali per una Mostra / Gianluca Didino
FN mostra il Futuro
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Futureworld – Materiali per una Mostra
A Cura di Pietro Grandi e Federico Novaro
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Dal 3 al 6 novembre 2016, nell’ambito dei Torino Graphics Day, FN presentò Futureworld, materiali per una mostra: una selezione dalla collezione di Pietro Grandi, un nuovo tassello del lavoro che Grandi e FN conducono per rendere pubblica una raccolta unica e preziosa. In quell’occasione, per la grafica di Christel Martinod, fu stampato un catalogo dei pezzi esposti, la cui introduzione di Gianluca Didino pubblichiamo qui sotto.
[n. d. d]
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Introduzione, di Gianluca Didino
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California, 1966. Nel campus della Stanford University un ex studente di biologia distribuisce spille bianche con una scritta nera che dice: “Why haven’t we seen a photograph of the whole Earth yet?” Si chiama Stewart Brand, ha ventotto anni, è stato un soldato e un membro dei Merry Pranksters, un gruppo che promuove l’uso delle droghe psichedeliche; nonostante la giovane età ha studiato anche design e fotografia, ha vissuto nelle riserve indiane e abita con la seconda moglie su una barca ancorata nella baia di Sausalito. Ora sta facendo campagna perché la NASA renda pubbliche le prime fotografie satellitari della Terra vista dallo spazio di cui sui giornali si mormora da mesi: come l’architetto Richard Buckminster Fuller, Brand è convinto che se l’umanità potesse vedere il pianeta dal di fuori, galleggiante nel nero del vuoto cosmico, il senso di appartenenza alla stessa specie diventerebbe così forte da far cessare le guerre e cadere le divisioni di classe. Buckminster Fuller, che nel 1966 ha superato i settant’anni, lavora da tempo su concetti simili: dalla fine degli anni Quaranta progetta cupole geodetiche, rifugi eco-sostenibili basati sull’idea della Terra come un’astronave nello spazio con risorse limitate (Spaceship Earth) e la cui progettazione si avvale dello studio della teoria dei sistemi e della capacità offerta dalla tecnologia di risparmiare sui materiali (ephemeralization). Nella California degli anni Sessanta, teoria dei sistemi e cibernetica sono le parole chiave di campi di studio che si intersecano: a Palo Alto lo psicoterapeuta Don D. Jackson ha fondato il Mental Research Institute, dove le malattie mentali vengono indagate nell’ottica di un sistema di relazioni secondo le teorie della cibernetica postulate da Norbert Wiener nel 1947; il 9 dicembre del 1968 a San Francisco l’ingegnere Douglas Engelbart tiene una dimostrazione di informatica che passerà alla storia come The Mother of all Demos in cui presenta al pubblico per la prima volta il funzionamento base del personal computer: a essere introdotte quel giorno sono l’interfaccia grafica, il word processor, la videoconferenza e il mouse.
Un anno dopo l’inizio della campagna a Stanford, Brand ottiene quello che desidera: la NASA rende pubblica un’immagine a colori del nostro pianeta scattata dal satellite ATS-3. L’anno successivo, lo stesso del Maggio francese, l’astronauta William Anders scatta dall’Apollo 8 quella che diventerà la più famosa immagine della Terra vista dallo spazio: nella parte bassa della fotografia si vede la superficie sterile e grigia della Luna, mentre in lontananza appare la Terra azzurra, luminosa e per metà nascosta dal nero interplanetario. Si tratta di un’immagine che aggiunge qualcosa anche rispetto al discorso iniziale di Brand: fotografata da quella prospettiva la Luna manifesta tutta la sua alterità aliena, mentre la Terra sembra sull’orlo di affondare nel buio. Brand utilizza questa fotografia per illustrare la copertina dell’edizione primaverile del 1969 del suo Whole Earth Catalog, una sorta di catalogo di vendita per corrispondenza di materiale DIY (Do It Yourself, equivalente dell’italiano “fai-da-te”) per comunità hippy nato dalla campagna di Stanford. Sei anni dopo, quando il Whole Earth Catalog chiude le pubblicazioni, la quarta di copertina dell’edizione del 1974 mostra due immagini: nella parte bassa un panorama quotidiano di una strada californiana al tramonto, con colline basse e pali della luce; nella parte alta un’eclissi lunare e le parole “Stay hungry. Stay foolish”. Nel 2005, quasi quarant’anni dopo l’inizio della Whole Earth Campaign, il fondatore di Apple Steve Jobs tiene un famoso discorso ai neolaureati di Stanford, l’università che lui stesso ha frequentato a partire dal 1971. Il discorso di Jobs, com’è noto, si chiude con le stesse parole: “Stay hungry. Stay foolish”.
Quella della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta è una delle storie fondamentali della seconda metà del XX secolo. Alla “rivoluzione culturale” degli anni Sessanta, nella quale convergono movimenti libertari (beat e hippies) e artistici, si accompagnano istanze di trasformazione sociale e critica radicale al sistema capitalistico: mentre le contestazioni contro la guerra del Vietnam mettono a processo il complesso militar-industriale emerso dalla vittoria alleata contro il nazifascismo, una nuova generazione di intellettuali introduce la cultura americana nell’epoca postmoderna: nel campus dell’università di Berkeley, nel decennio 1960-1970, tengono lezioni i maggiori filosofi post-strutturalisti (da Derrida a Barthes a Foucault) e si esibiscono i grandi poeti beat come Allen Ginsberg e i musicisti di punta della nuova scena rock cantautoriale, da Joan Baez ai Grateful Dead. In questo movimento sfaccettato e multidisciplinare convergono nuove sensibilità, un acuito interesse per i mezzi di comunicazione seguito alla pubblicazione nel 1964 di Understanding Media di Marshall McLuhan, un nuovo approccio alla cultura tout-court (del 1966 è Against Interpretation di Susan Sontag, il primo saggio propriamente postmoderno) e una prospettiva di ampio respiro su temi ultimi come la sopravvivenza della specie umana, che traccia un filo rosso dalla paura atomica degli anni 1961-1963 all’allunaggio del luglio 1969. Negli stessi anni, nello stesso luogo, la cultura hippy raggiunge il suo culmine e inizia il suo declino con la Summer of Love di San Francisco del 1967. Come abbiamo visto sopra, inoltre, vengono poste le basi per la nascita dell’informatica: nel decennio successivo, i Settanta, allo Xerox PARC di Palo Alto vengono compiuti esperimenti sulla computer grafica, sulle interfacce a finestra, sulla realtà virtuale e sull’intelligenza artificiale. Senza dimenticare naturalmente che è dal campus della UCLA a Los Angeles che nel 1969 viene inviato il primo messaggio attraverso la rete Arpanet, l’antenata di Internet.
Tutta questa complessità condensata nel tempo e nello spazio produce una quantità enorme di quella particolare forma di espressione della controcultura che sono i cosiddetti alternative media: fanzine, opuscoli e pubblicazioni che con una logica influenzata dal DIY (quella stessa idea per cui poteva essere possibile costruirsi la propria città alternativa alle città ufficiali, la propria vita al di fuori dal sistema) utilizza gli strumenti dei mezzi di comunicazione dominanti per farne qualcosa di nuovo, plasmare nuovi linguaggi che, al pari dei nuovi linguaggi informatici, si pongono l’obiettivo di cambiare le menti delle persone. A queste pubblicazioni, e alla storia che raccontano, è dedicata Futureworld – Materiali per una mostra. Dalla collezione di Pietro Grandi, tra le più complete in Italia sul tema, FN propone qui una selezione che comprende alcuni tasselli fondamentali della storia della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta: dalle edizioni chiave del World Earth Catalog alle copertine del “Time” sulle riviste del movimento hippy; dalle prime edizioni dei libri di Marshall McLuhan ai volumi sulla progettazione di città alternative basate sul modello della cupola geodetica; dalla mostra del MoMA sulla fine della società meccanica alla poesia di “All Watched Over by Machines of Loving Grace” di Richard Brautigan; dalla zine informatica “Radical Software” a “Guerrilla Television”; dall’expanded cinema neo-hollywoodiano delineato dal critico Gene Youngblood a “Computer Lib/Dream Machines”, il volume di Ted Nelson che più di ogni altro ha influenzato la nascente informatica nell’ottica di una estensione della mente umana, facendo per la prima volta del computer non un semplice calcolatore ma “una macchina dei sogni”.
L’importanza dei documenti qui presentati ne trascende l’aspetto storico-documentale o il valore collezionistico per un motivo: la storia che raccontano questi frammenti di passato dura ancora oggi, il passato non è affatto passato. Jobs, nel discorso ai laureati di Stanford che abbiamo citato sopra, ha paragonato il Whole Earth Catalog a una versione su carta di Google; la stessa Google ha ereditato (come molte altre start-up diventate colossi informatici da Apple a Microsoft fino ad Amazon) lo spirito visionario, la capacità di pensare in grande di quei progetti che si proponevano di cambiare il mondo. I computer sono veramente diventati della “macchine dei sogni” e delle “estensioni della mente umana”, e lo diventano di più ogni giorno che passa. Ma l’influenza della controcultura californiana non si limita soltanto alla sfera informatica. Basti pensare alla sensibilità ecologista che in quegli anni e in quei luoghi ha trovato la propria espressione moderna: mai prima della possibilità della catastrofe nucleare, ad esempio, si era pensato in termini di sopravvivenza della specie umana sulla Terra, né tantomeno alla possibilità per gli uomini di colonizzare altri pianeti. Oggi il global warming è forse la più concreta minaccia che pesa sul futuro del nostro pianeta, e i progetti di esplorazione spaziale e colonizzazione (terraforming) di ambienti esterni al sistema solare sono entrati nell’ottica del possibile.
Non tutto in quegli anni ha funzionato come avrebbe dovuto, o come i suoi attori si sarebbero augurati: il movimento hippy non ha rappresentato una alternativa vincente al capitalismo, almeno per ora, e la forza propulsiva delle tante controculture che si sono succedute nei decenni (punk, new wave, cyberpunk, techno, hacker) si è andata affievolendo nel tempo. Ma moltissimi dei temi che formano il panorama culturale del presente, dai rapporti tra i generi alla dicotomia natura/cultura, dalla critica al consumismo al marketing di sé stessi, dalla progressiva informatizzazione delle vite al mito della trasparenza (come ci raccontano i casi di WikiLeaks ed Edward Snowden tra i tanti), si sono posti in quel decennio unico come domande che ancora attendono una risposta. Per questo ripercorrere la storia di quegli anni significa risalire alle origini del nostro presente per intervenire sul futuro: se una cosa ci ha insegnato la controcultura è che non bisogna mai dare per scontato quello che sembra “naturale” a un primo sguardo, e che la cosa migliore da fare, nel dubbio, è cercare la strada meno scontata. Come diceva Allen Ginsberg, il grande poeta beat, “le nostre teste sono rotonde così il nostro pensiero può cambiare direzione”.
[Intento di FN è stato, da subito, quello di costruire archivi; dei fondachi di materiali che trasportassero in rete quel che la rete fa sparire: la carta. C’è una separazione radicale e mal segnata fra il cartaceo e il virtuale. In rete se si cerca la carta non la si trova, si trovano le parole che la carta portava su di sè, ma niente che ci dica dove fossero quelle parole, che aspetto avesse l’oggetto che le conteneva. Chi volesse studiare ora editoria in rete trova ben poco, se non parole, che non bastano. Questa serie, Futureworld, a cura di Pietro Grandi, interpreta al meglio quell’intento che FN insegue da sempre. (N.d.D.) ]