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13: BOTHO STRAUSS / La dedica

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Botho Strauss, LA DEDICA. Guanda 1982. Prosa contemporanea 13.

Botho Strauss, La dedica, Guanda, Milano 1982. 100 pp.; 20 cm x 12 cm; (Prosa contemporanea 13)
Titolo originale: Die Widmung: Eine Erzählung
Traduzione di Vittoria Ruberl
Brossura con bandelle
Alla copertina: Félix Vallotton, Autoritratto, 1885.
Stampa: maggio 1982
Stampatore: Edigraf s.n.c. S. Giuliano Milanese
Copyright by Carl Hanser Verlag München Wien, 1977
© 1982 Ugo Guanda Editore S.p.A, via Daniele Manin 13, Milano
Lire: illeggibile
Copia in ottimo stato.
[M. M.]

 

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Alla bandella di copertina:

La dedica di Botho Strauss è un libro scritto «dopo le avanguardie», dai temi e dalla scrittura già così tipi­ci. Ma non è, naturalmente, un libro che guarda in­dietro, sebbene l’autore consideri lo scrivere niente altro che un «viaggio di ritorno». Si tratta, piuttosto, di spostare leggermente il bersaglio – o la meta, per usare un altro termine dello stesso Strauss. Parlere­mo, allora, di spostamenti laterali, di deviazioni ri­spetto al deviare dalla strada maestra. Parleremo, forse, di transavanguardia, o qualcosa del genere. Pensiamo per un momento a due film: I predatori dell’Arca perduta di Spielberg e Brivido caldo di Kasdan. Non sono, allo stesso modo, capostipiti di un desiderio di rivivere, con la mediazione della cultura di massa, i miti del cinema, o d’ogni storia racconta­bile, quello dell’avventura e quello della passione? Non sono, questi, i nuclei narrativi di ogni cultura popolare, e dunque tutto ciò che maggiormente l’avanguardia ha combattuto e che oggi vuole (for­se) continuare a combattere tuttavia riapproprian­dosene?

Allo stesso modo in letteratura. Pensiamo a due gio­vani scrittori (entrambi di lingua spagnola) come Osvaldo Soriano e Manuel Vazquez Montalban; e poi a due scrittori (entrambi di lingua tedesca) co­me Peter Handke e Botho Strauss, ma anche al fran­cese Tony Duvert. Mentre i primi due sembra che si siano attribuiti il compito di restituire all’avventura, e segnatamente all’avventura poliziesca, il fulgore romanzesco d’una volta, con tutto il senso di disillu­sione sociale che comporta una «inchiesta» nel mondo contemporaneo, gli altri, e tra loro con ecce­zionale limpidezza di scrittura l’austriaco e il tede­sco, sembrano intenti a restituire al romanzo il suo potere di sprofondamento nell’intérieur, familiare o psicologico.

I modelli di recupero sono evidenti, e in genere di­chiarati. Nei primi, Hammett e Chandler, la lettera­tura californiana degli anni trenta. Nei secondi, gli analisti francesi della passione, da M.me de Stael a Fromentin fino al commentatissimo Amiel. Non a caso, La dedica non è neppure un romanzo, ma solo una lunga «dedica». Certo, c’è un protagonista, con nome e cognome e perfino con una professione di li­braio. E il testo consiste di ciò che egli scrive, duran­te una torrida estate berlinese, in quanto abbando­nato dalla sua ragazza, e nella speranza che questo stesso scrivere infine gli restituisca l’oggetto della passione. Tuttavia, il protagonista della Dedica non pensa ad una «restituzione» nel senso di Proust. Ma ad una restituzione piena, effettiva. Egli scrive poiché spera; perché scrivere equivale a sperare. Scri­ve, insomma, per modificare il mondo. È tutto ciò che è restato, nella letteratura di oggi, delle nozioni e delle utopie post-belliche e post-sessantottesche. Il resto è un cumulo, sebbene incan­descente, di residui; ovvero un diario, pura fenome­nologia della vita quotidiana – la puttana che passeggia sotto casa, il guardar la televisione (è la prima volta che un eroe romanzesco guarda tanto la televi­sione, e in modo così normale – perché, altrimenti, ci sarebbe Kosinski…), il litigare con il vicino di ca­sa, o di letto, il confrontarsi con le «persone comu­ni» e il conseguente osservare come in loro «tutte le energie eccedenti, tutti gli ardori vengano investiti nel miglioramento della normalità». Alla fine, di codesta fenomenologia farà parte anche la constatazio­ne che non c’è né bersaglio né meta, e che ogni «de­dica», per quanto ardita e ben scritta, tornerà al mit­tente.

 

Alla bandella della quarta di copertina:

Botho Strauss è nato nel 1944 a Naumburg (Saale) e vive a Berlino. Ha esordito nel 1975 con un libro di racconti, Marlenes Schwester (La sorella di Marle­ne), al quale sono seguiti i romanzi Die Widmung (La dedica) nel 1977 e Rumor (Baccano) nel 1980. All’at­tività di narratore, Strauss ha affiancato quella di drammaturgo; tra i suoi testi teatrali ricordiamo: Trilogie des Wiedersehens (Trilogia del rivedersi), 1976; Gross und klein (Grande e piccolo), 1978; Die Hypochonder (L’ipocondriaco), 1979. Il suo libro più recente è Paare, Passanten (Coppie, passanti), un te­sto di prosa uscito in Germania lo scorso anno. La dedica, che qui presentiamo, è la prima opera di Strauss tradotta in italiano.

 

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