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L’articolo 1 della Costituzione italiana, di Guido Pulcher

Articolo 1

L’Italia è una Repubblica di lavoratori.

Tutti i tecnici giuridici si mettano l’anima in pace. Questa Costituzione è la legge delle leggi, è la legge fondamentale, e basilare, che supera tutte le leggi. È una norma, cioè un comandamento. In quanto nella norma è compreso il principio e la disposizione, il diritto e la morale, il presente e l’avvenire. Credo perciò che questo capitolo debba essere intitolato «Norme generali», e la Repubblica definita: «Repubblica di lavoratori».

Il 17 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, il socialista siciliano onorevole Mancini pronuncia queste parole davanti all’Assemblea Costituente.
Se fosse stato approvato questo testo, tutti i diritti ed i doveri sanciti nella Costituzione sarebbero stati limitati ad una certa categoria di persone –i lavoratori– ad esclusione di tutti gli altri.
L’equilibrio dei poteri sarebbe stato del tutto diverso da quello che conosciamo oggi perché l’esercizio dei diritti politici (votare ed essere eletti) sarebbe stato appannaggio dei soli lavoratori.

Tornando al 1947, ed esplorando il resoconto stenografico del dibattito della giornata, si scopre che i delegati socialisti e comunisti furono compatti nel proporre e chiedere all’Assemblea una formulazione dell’articolo 1 che richiamasse il ruolo centrale dei lavoratori nella Repubblica appena nata.

Togliatti –all’epoca segretario del Partito Comunista– nega “anzitutto che l’espressione «lavoratori» abbia un carattere limitativo; […] se vi è questo timore, si può usare la formula «lavoratori di tutte le categorie», oppure «lavoratori del braccio e della mente»”.
Il deputato Nobile è invece dell’avviso che “il comma dell’articolo sia pleonastico, in quanto è impossibile pensare ad una società moderna che non sia basata sul lavoro”.
Alle ore 10.30 il Presidente Tupini pone in votazione l’emendamento di Togliatti.
L’emendamento non è approvato.
Tupini avverte allora l’assemblea che si intende approvato il primo comma (la prima frase) nel testo proposto dal Comitato di redazione: «L’Italia è una Repubblica democratica».

La discussione sembrava chiusa con il rigetto della proposta socialista ma alla fine si è trovata una soluzione di compromesso che ha accolto anche le istanze socialiste. Il primo comma –la prima frase– dell’articolo 1 infatti recita:

“L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro”.

Questo compromesso –evidente nella genesi dell’articolo 1– è indicativo di un processo che ha portato alla stesura dell’intero testo costituzionale. Già dalla formulazione del primo articolo emergono forti le tre anime del processo costituente italiano, l’anima cristiana, quella liberale e quella socialista. Nella lettura dell’intero testo costituzionale si riconosce in modo limpido il fatto che la nostra Costituzione è il risultato dell’incontro di queste tre importanti tradizioni politiche.
La composizione stessa dell’Assemblea Costituente rifletteva questa articolazione.
Il 2 giugno 1946 tutti i cittadini italiani maggiorenni erano chiamati alle urne per esprimere due voti. Il primo era sul cosiddetto referendum istituzionale: monarchia o repubblica.
Nello stesso giorno, ai cittadini era stata fornita una seconda scheda che riguardava invece la scelta dei rappresentanti per l’Assemblea Costituente la quale, a prescindere da quale fosse stato il risultato del referendum –quindi anche in caso di vittoria della forma di stato monarchica– avrebbe avuto il compito di redigere la nuova Costituzione.
Dai risultati di questa elezione è risultata come primo partito la Democrazia Cristiana, secondo e terzo i partiti socialista e comunista, quarto il partito liberale.

L’Italia è dunque una Repubblica Democratica.

Per quanto scontato potesse essere il riconoscimento della forma repubblicana e della natura democratica dello Stato, il testo dell’articolo 1 è stato molto discusso durante i lavori dell’Assemblea Costituente. Alcuni ritenevano fosse giusto seguire la tradizione francese ed Americana creando un “preambolo” nel quale venissero inserite le dichiarazioni di principio ed i valori fondamentali della Repubblica.

Altri, tra cui Costantino Mortati, ritenevano che esprimere questi caratteri a chiare lettere nel primo articolo della nuova Costituzione fosse importante per dare un’indicazione chiara della forma di stato. Secondo Mortati, l’articolo 1 deve intendersi sia come elemento ermeneutico utile all’interpretazione ed applicazione dell’intero testo costituzionale sia come base diretta ed immediata per il riconoscimento dell’efficacia normativa del testo (C. Mortati, Costituzione dello Stato, II, La costituzione italiana, in Enc. dir., vol. XI, Milano, 1962, 214 ss.).
Parlare di efficacia normativa significa ricordare che la Costituzione non è una dichiarazione generale di principi ma è un testo di legge che può avere effetti giuridici molto concreti.
Anzi, è una legge con una efficacia normativa talmente forte da essere in grado, grazie al fatto di essere sovraordinata a tutte le altre, di annullare qualsiasi altro atto normativo che sia in contrasto con essa. Sottolineare l’efficacia normativa dell’articolo 1 significa dunque riconoscere il fatto che nessuna legge potrà essere ritenuta valida se contrasta con la forma repubblicana e democratica dello Stato Italiano.
In altre parole, se viene presentata una proposta di legge contraria all’ordine democratico del paese, quella legge deve essere considerata incostituzionale proprio perché in contrasto con l’articolo 1.

L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro.

Il primo comma dell’articolo 1, a seguito delle pressioni dei delegati di sinistra è stato infine completato aggiungendo il fondamento della Repubblica sul lavoro.

Piero Calamandrei, professore universitario e forse il più famoso costituzionalista presente in Assemblea, aveva commentato: “io come giurista mi domando: quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?
Più che un concetto giuridico, si tratta infatti di un concetto di natura politica.
Diversi costituzionalisti si sono interrogati sul carattere prescrittivo di questa espressione: Mortati ad esempio riteneva che il lavoro viene posto come un valore da porre a fondamento dei rapporti etico-sociali della Repubblica.
Per alcuni giuristi (ad es. Giannini, Rilevanza costituzionale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1948, p. 19), la parte in cui la Costituzione pone il lavoro a base della Repubblica, è solo una “espressione di retorica costituzionale”.
A questa critica è stato invece risposto che la portata della disposizione non può essere ridotta ad una enunciazione priva di effetto pratico ma deve essere interpretata come un “obbligo” dello Stato che viene anzi riconosciuto come primo e più importante nella gerarchia dei principi fondamentali essendo posto proprio all’articolo 1.
Si deve infatti ricordare che il testo costituzionale attribuisce una serie di diritti che spesso sono in contrasto tra loro tra i quali ad esempio il diritto al lavoro (articolo 4) ed il diritto alla libertà di impresa (articolo 41). In caso di contrasto tra i due, lo Stato deve impegnarsi a garantire il primo anche a discapito del secondo.

La Repubblica non è fondata sulla libertà di impresa; è fondata sul Lavoro.

Per Mortati le disposizioni costituzionali relative ai rapporti economici tra lavoro ed impresa, l’enfasi che la nostra Costituzione pone sul concetto di lavoro e la tutela dei diritti dei lavoratori costituiscono «l’elemento innovatore più significativo» della Costituzione italiana. Si deve ricordare a questo proposito che tra tutti i paesi europei l’Italia era il paese che aveva il partito comunista più forte e quello che è stato maggiormente rappresentato in un processo di redazione costituzionale. Questa caratteristica politica ha contribuito a rendere la nostra costituzione una di quelle con le maggiori garanzie per i lavoratori.
Il secondo comma dell’articolo 1 sottolinea il carattere repubblicano dello Stato.

“La Sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Un liberale monarchico, eletto all’Assemblea Costituente, dal cognome evocativo –Lucifero– commentava in aula il 4 marzo 1947: “Signori miei, io non l’ho voluta, voi l’avete voluta, ed ormai c’è questa Repubblica. La caratteristica fondamentale che distingue la Repubblica dalla Monarchia è che mentre nella Monarchia la sovranità risiede nel Sovrano, nella Repubblica la sovranità risiede nel popolo. Visto che si sta facendo la Repubblica, facciamola repubblicana!”.
L’esercizio della sovranità –ossia l’esercizio del potere– è stato quindi riconosciuto nel popolo inteso come l’insieme di tutti i cittadini all’indomani della prima elezione (quella del referendum istituzionale monarchia/repubblica) in cui in Italia hanno potuto partecipare anche le donne.

Questa enunciazione, posta all’articolo 1, indica “chi” esercita il potere.
Ci sono regole di dettaglio negli articoli successivi che descrivono “come” questo potere debba essere esercitato. La nostra Costituzione si pone in continuità rispetto ad una tradizione politica della cosiddetta democrazia “rappresentativa” pur conservando alcuni elementi di democrazia “diretta”.

Parlare di democrazia rappresentativa significa ricordare che i cittadini non possono prendere tutte le decisioni tramite elezioni dirette ma la collettività deve eleggere dei propri rappresentanti in Parlamento i quali a loro volta: discutono ed approvano tutte le leggi, eleggono il Presidente della Repubblica e sostengono –o fanno cadere– i Governi.
Gli strumenti di democrazia diretta sono invece i referendum. I cittadini sono chiamati a votare direttamente, senza intermediazioni, su una questione ben precisa come ad esempio sulla legalità dell’aborto (1981) o del divorzio (1974).

L’articolo 1 prescrive anche che la sovranità non può essere priva di limiti, come invece era stato il potere del Duce durante il periodo fascista.
Il Duce era stato infatti nominato Primo Ministro e poi confermato alla guida del Governo attraverso un’elezione popolare ma la mancanza di limiti al potere del Re e del suo Primo Ministro nella precedente costituzione italiana (lo Statuto Albertino) avevano aperto la strada alla dittatura.
L’Assemblea Costituente si è quindi ben preoccupata di porre dei limiti –stringenti– a chi viene eletto e si occupa, in un determinato momento, di governare la Repubblica. Gli strumenti che sono stati inseriti per limitare il potere del Governo sono quelli tradizionali delle democrazie che seguono la cosiddetta separazione dei poteri: il potere legislativo (il Parlamento) il potere esecutivo (Governo) ed il potere giudiziario (i giudici) sono tra di loro separati ed indipendenti.
È la Parte Seconda della Costituzione, dedicata all’“Ordinamento della Repubblica”, che disciplina l’equilibrio dei tre poteri ed in generale i dettagli della complessa macchina istituzionale della Repubblica. Il principio di fondo rimane quello di garanzia per la libertà dei cittadini: nessun potere può essere esercitato al di fuori dai limiti previsti dalla Costituzione. L’ultima parte dell’articolo 1 si riferisce proprio a questo.

Aldo Moro, ricordando l’esperienza fascista e cercando appunto un modo per evitare che gli estremismi potessero riprendere il potere attraverso un uso distorto del metodo democratico, insistette in Assemblea per inserire questo limite all’esercizio del potere proprio nell’articolo 1.
Fummo noi, io ed alcuni colleghi, nell’ambito della prima Sottocommissione, che chiedemmo che vi fosse una indicazione di questo genere, la quale servisse a precisare in modo inequivocabile, dopo la dura esperienza fascista, che la sovranità dello Stato […] è un potere che trova il suo fondamento e il suo limite nell’ambito dell’ordinamento giuridico formato appunto della Costituzione e delle leggi”.

L’esercizio della sovranità da parte del popolo, restando nei limiti delle regole indicate dalla Costituzione, comporta anche l’accettazione del fatto che tutte le istanze devono considerarsi legittime se espresse all’interno dei limiti della Costituzione. Anche l’antipolitica. Alle elezioni del 2 giugno 1946, più di un milione di voti li prese il “Fronte dell’Uomo Qualunque” un partito nato attorno ad un settimanale di satira politica romano. Già dal nome del partito si può intuire quale fosse la sua linea politica ma è stato segnalato che la sua opposizione era totale e partiva, appunto, da un uso della lingua che si poneva agli antipodi rispetto al linguaggio solitamente misurato dei politici. Per questa ragione, il principale bersaglio polemico della satira qualunquista furono i cosiddetti “uomini politici di professione”, vale a dire i politici in generale, o i “Capi”, persone giudicate incapaci di esercitare una professione e perciò dedite attraverso la politica a curare i propri interessi e accumulare fortune a danno dell’“uomo qualunque” (Diacronie Studi di Storia Contemporanea N. 11, 3/2012).

L’antipolitica –di cui si parla tanto anche oggi– non è una cosa nuova. Anzi, si era addirittura insediata nell’Assemblea Costituente ma ciò non ha impedito a questa di svolgere egregiamente il proprio compito.

 

Articolo 1

L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

illustrazione: Andrea Vendetti, stampa a caratteri mobili
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